FEDERAZIONE AUTONOMA BANCARI
ITALIANI
6^ Conferenza di Organizzazione
Relazione
introduttiva
svolta da
Gianfranco Amato
Segretario Nazionale FABI
Castelvecchio Pascoli (LU) 25 – 28 novembre 2002
LA CORNICE DEL QUADRO
La FABI si presenta alla 6^ Conferenza di Organizzazione con una storia strettamente intrecciata alle sorti del settore del credito e con una visibilità inequivocabile nel panorama sindacale, ampio e composito, dell’intero Paese.
Si è molto discusso, negli ultimi anni,
del grande tema del cambiamento, e ancora se ne discutono le caratteristiche,
le prospettive, le direzioni di marcia.
Larga parte, però, di questo dibattito si è dimostrata sterile e velleitaria, poiché affollata di parole vuote, di luoghi comuni ed inutili, tali da far apparire l’evenienza del mutamento niente più che un fenomeno di moda.
In questo continuo divenire, che
abbiamo più volte definito come transizione
permanente, la FABI si è mossa, come sempre, con analisi severe e lucido
realismo, al fine di realizzare sintesi politiche efficaci; utili alla difesa
della categoria e degli ambiti in cui essa è chiamata ad operare.
Anche nell’occasione di questa Conferenza, intendiamo rimanere il più possibile fedeli alla nostra linea di comportamento, con l’obiettivo di collocare le novità, le esigenze e le proposte organizzative nello scenario generale della nostra epoca.
PASSATO PROSSIMO
Gli osservatori e gli analisti più
autorevoli convengono nell’attribuire agli anni che stiamo vivendo le
caratteristiche della post-modernità.
Senza volerci addentrare in
considerazioni troppo vaste, ci limitiamo a ricordare che si tratta di una
definizione di ambito sociologico, utile a distinguere questo periodo da quello
della modernità, con la quale
abbiamo avuto (ed abbiamo tuttora) ampia confidenza e lunga abitudine.
Ancora
abbiamo, poiché – come in qualunque passaggio da un’epoca all’altra – non è
possibile tracciare un confine temporale indubitabile, se non per una pura e
semplice convenzione, che si trasforma, da quel momento in poi, nella data di
riferimento.
Dunque la modernità non è finita, non
ha concluso la sua corsa, anzi confluisce (ed influisce) nei meandri e nelle
pieghe del post-moderno.
Due, più degli altri, ci sembrano i caratteri
decisivi di questa epoca così definita: il rapporto di dipendenza della Politica dall’Economia e la diversa percezione del rapporto tra Spazio e Tempo.
Pochi dubbi riteniamo siano rimasti sul
fatto che la politica abbia perso il primato che deteneva da più di 2000 anni,
a favore di una economia tendenzialmente omogenea ed uniforme, tale da
annullare progressivamente tutte le differenze, comprese quelle tra Oriente ed
Occidente.
Da momento di sintesi di esigenze e pensieri diversi, e luogo di mediazione dei conflitti, essa è diventata una fredda esecutrice degli interessi dell’economia dominante, quella delle grandi multinazionali, della Banca Mondiale e del Fondo monetario internazionale, i quali, sempre più spesso, si muovono senza regole condivise.
Un’economia, peraltro, sempre più
finanziaria e sempre meno ancorata ai fondamentali dei singoli Stati; negli
ultimi anni legata al mito della new
economy (ed alla sua versione aggiornata di net economy) ed alle promesse di una distribuzione inesauribile di
ricchezza.
Mito di carta, rapidamente dileguato di
fronte ai bilanci truccati, alle speculazioni nevrotiche, alle stregonerie
degli analisti finanziari.
Ora stiamo assistendo ad una sorta di apparente paradosso: da un lato un forte ridimensionamento degli idoli della nuova economia, con la conseguente rivalutazione dei vecchi mezzi di produzione, distribuzione e consumo; dall’altro una dipendenza, di fatto irreversibile, dai prodotti delle tecnologie ultramoderne, in larga misura fini a se stessi, poiché creati indipendentemente dai bisogni reali. L’uso smisurato del telefono cellulare rappresenta l’esempio forse più facile.
Ma alcuni di questi prodotti sono
rapidamente destinati a saturare il mercato e perciò ad entrare in crisi,
alimentando la spirale involutiva che abbiamo appena accennato.
E’ opportuno ricordare che l’economia
contemporanea è alimentata soprattutto dalle nuove tecnologie, le quali trovano
nel Digitale la loro forma
applicativa più recente.
Ma non è solo negli ultimi anni che la
innovazione tecnologica determina l’andamento economico: dalla scoperta del
fuoco a quella della ruota la razionalità (che è la vera forma della tecnica) ha sempre servito l’economia. Da un certo
periodo in poi (che potremmo far coincidere più o meno con l’inizio del ‘900)
anche questo rapporto si è rovesciato: l’economia
è diventata a sua volta dipendente dalla tecnica,
che una volta le ubbidiva.
Dalla combinazione ferrea e severa fra
tecnica ed economia deriva il fenomeno della globalizzazione, indagata ormai in tutti i modi, pronunciata
milioni di volte al giorno, si presenta come una novità consumata, la quale, tuttavia, produce i suoi effetti
inarrestabili, positivi e negativi insieme, come tutte le manifestazioni del
progresso.
Inarrestabile, abbiamo detto, proprio
in virtù dei motivi esposti in precedenza; con
effetti positivi, come l’aumento della possibilità di accesso alle risorse
generali, negativi, come lo
sfruttamento cinico di vaste aree del pianeta, sia nella dimensione geografica,
sia umana.
Ecco perché non vale opporsi alla
globalizzazione in modo radicale, sarebbe come opporsi ad una qualunque
tipologia del cambiamento che ha segnato le tappe del lungo cammino della
storia.
La possibilità concessa è sempre quella: il controllo del
fenomeno, della sua diffusione, dei suoi effetti, al fine di valorizzare al
massimo gli aspetti utili ed attenuare il più possibile le conseguenze
negative. In altre parole il governo del
processo.
Ma per fare questo occorre la politica,
la quale però, come abbiamo visto, è ridotta al ruolo di ancella. E qui il cerchio si chiude, o si recupera il
primato di una politica attualmente relegata ad una funzione del tutto
marginale, o la partita è persa, con conseguenze probabilmente irrimediabili
per l’intero pianeta.
Il secondo tratto che abbiamo indicato come elemento
caratteristico della postmodernità è il mutamento del rapporto Spazio/Tempo, al
primo comunque complementare e coerente, idoneo a comporre un quadro d’assieme
delle dinamiche contemporanee.
Dopo aver abbandonato la dimensione
ciclica, che l’aveva accompagnato nell’antichità, l’idea di tempo aveva assunto
nell’epoca del moderno una dimensione lineare, progressiva ed irreversibile.
Adesso non è più così, la percezione è
quella di un tempo dilatato ed esteso, una sorta di eterno presente, che ha
perso la memoria e che vive l’ansia di un futuro nebuloso ed estraneo.
Le nuove forme dell’economia si
trasferiscono anche in nuove forme di lavoro, dipendente o autonomo che sia.
Nel vasto territorio del lavoro subordinato viene meno la modalità del
procedere temporale, passo dopo passo, pur restando in uno spazio fermo e
sostanzialmente omogeneo. Il dettato dei tempi attuali induce una continua
dislocazione delle diverse fasi di produzione, ed una conseguente
frammentazione in una miriade di segmenti produttivi separati ed isolati, tra
loro comunicanti quasi esclusivamente attraverso i messaggi in codice dei
computer.
Il risultato, allora, è quello che
tutti conosciamo: alla vecchia dimensione ritenuta immutabile di “spazio fermo / tempo mobile e lineare”,
si è sostituito il rapporto de-localizzazione/con-temporaneità:
una demoltiplicazione dello spazio che annulla le vecchie distanze.
Flessibilità
e telelavoro rappresentano ottimi
esempi, concreti ed attuali, della nuova
dimensione che il lavoro sta assumendo, nuove parole d’ordine che,
sempre più spesso, trovano cittadinanza nel rinnovo di tutti i contratti di
lavoro.
Con la stessa evidenza, però, si
avverte che la linea di separazione tra la flessibilità e la precarietà è
fragile e sottile, come dimostra la domanda insistente di normative più
elastiche, di confini mobili tra assunzione e licenziamento, di misure
variabili della retribuzione. La grande
guerra dell’art. 18 si attesta, in fondo, proprio su quel piccolo lembo
della terra di nessuno che separa le due regioni della flessibilità e della
precarietà.
Detto in termini complessivi, che poi ci riguardano da vicino: la modalità, i tempi ed il risultato dell’ultimo contratto nazionale nel settore del credito sono una conseguenza pratica della nuova relazione che intercorre tra Economia e Politica da un lato e della diversa percezione Spazio/Tempo dall’altra. Gli stessi processi di fusione, di concentrazione, di ricerca, a volte troppo rapida e spesso disordinata, di nuovi assetti societari ed organizzativi degli istituti di credito – ma anche delle aziende di altri settori merceologici – stanno all’interno di questa nuova dimensione della postmodernità.
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Se questa è, in buona sostanza, la cornice generale della nostra
contemporaneità, se pure tracciata per rapide sintesi, occorre una riflessione
approfondita sui possibili cambiamenti che dovranno interessare la nostra
Organizzazione.
Innanzitutto un cambio culturale,
inteso in un senso naturalmente molto ampio: come atteggiamento, modo di
procedere, visione di prospettiva, intenzionalità contrattuale.
Condizioni in parte già intervenute nel
corso degli ultimi anni, i quali hanno visto almeno tre momenti decisivi in
termini di cambiamento: un rinnovo
contrattuale diverso rispetto alla tradizione; la fusione con la FASIB; la costituzione della FASST.
Dei primi due abbiamo ormai detto e discusso in modo esauriente in diverse occasioni, sul terzo, invece, poiché ancora recente, è bene spendere qualche parola in più.
E’ opportuno ricordare che nella storia
della FABI esiste, tra l’altro, una sorta di federalismo “ante litteram“, che
ha garantito un’autonomia decentrata e applicata ad ogni realtà territoriale,
pur nel riconoscimento e nella piena accettazione delle sintesi politiche di
volta in volta operate dalla Federazione.
Questa autonomia federativa sta alla base della costituzione di una nuova
realtà sindacale, che si pone in quella regione intermedia, sostanzialmente
vuota, tra le grandi confederazioni da un lato, e quella nebulosa vasta e
frastagliata dei sindacati di categoria, alcuni dei quali autonomi immaginari.
La FASST, allora, si presenta nel
panorama sindacale italiano come una esperienza nuova: una federazione di
sindacati dei servizi e delle alte professionalità, determinata a coniugare l’autonomia
delle singole organizzazioni con una visione strategica complessiva della
realtà sociale, politica ed economica dei nostri giorni.
Ora si tratta - e questa è la prima
indicazione che emerge dalla nostra riflessione – di passare dal mondo delle idee
a quello dei fatti e dei comportamenti.
Ciascuna realtà territoriale deve
trovare occasioni d’incontro con le altre organizzazioni associate, con
l’obiettivo di realizzare iniziative comuni, sia sui grandi temi sindacali, ove
possibile, sia in termini di collaborazione nell’area dei servizi agli
iscritti.
Le sfide per le imprese bancarie si
fanno sempre più complesse; l’evoluzione delle tecnologie, le esigenze
crescenti della clientela, il coinvolgimento responsabile dei lavoratori sono
elementi con i quali misurare la competitività.
Il capitale intellettuale o, più
semplicemente, i lavoratori e le lavoratrici con le competenze, le aspettative,
la volontà e la capacità di immaginare il futuro sono ancora l’elemento
centrale a cui le aziende devono riferirsi, pur nell’ambito di una economia di
mercato, che tende, tra l’altro, ad evitare le regole.
Il momento in cui sviluppiamo il
dibattito vede in corso trattative estremamente difficili, soprattutto a motivo
di migliaia di esuberi annunciati
nei grandi gruppi.
Sarebbe interessante a questo punto capire perché ci troviamo, ora, davanti ad enunciazioni di tale natura e di tale misura, quando, fino a pochi mesi addietro, sembrava che il sistema fosse ormai risanato.
In altre parole, se, e in quale
dimensione, queste decine di migliaia di esuberi dichiarati, sono l’effetto
ineludibile di un maligno spirito del
tempo, oppure la conseguenza evitabile
della incapacità imprenditoriale di alcuni dirigenti, che giocano a monòpoli
con le aziende che vengono loro affidate e con i destini dei lavoratori in esse
occupati.
Contemporaneamente si stanno
ipotizzando modifiche del CCNL, tali da fornire ai lavoratori un futuro
professionale all’altezza delle aspettative, e al sindacato un ruolo forte di
governo del cambiamento.
La vera sfida non è più e non è solo
nel sostenere obiettivi ambiziosi, ma nell’essere credibili in un sistema che
nega il valore della professionalità in nome della riduzione del costo del
lavoro e che nei momenti difficili pensa di forzare le scelte del sindacato
cancellando gli accordi sottoscritti.
Non ci sono scorciatoie che possono
consentire alle Aziende ed ai lavoratori di salvare i propri interessi in modo
separato le une dagli altri.
Quale, a questo proposito, la proposta
politica che ci compete?
Essa parte dalla considerazione che, da
tempo, il mondo delle Aziende, non solo del credito, rivendica con tenacia
quella che viene chiamata “la centralità
dell’impresa”; tanto che di questa idea discute, e se ne discute, in
numerosi convegni, meeting, pubblicazioni, riviste e quant’altro.
Ora, noi sosteniamo che se l’impresa vuole essere uno dei centri del
tessuto civile ed economico del Paese, deve assumere un ruolo di responsabilità
sociale, il quale va ben oltre i risultati contabili che portano al profitto,
per farsi carico del rispetto pieno delle persone che vi lavorano e
dell’ambiente in cui essa opera.
Alla centralità dell’impresa, allora,
rispondiamo con la responsabilità
sociale dell’impresa.
IL LUOGO
DELL’AUTONOMIA
La
Conferenza è sede idonea per richiamare l’autonomia della FABI, il suo
significato, il senso del suo orientamento, i riferimenti concettuali dei quali
essa si avvale.
Diciamo da
sempre che l’autonomia della FABI è diversa da ogni altra esperienza rilevabile
nel panorama sindacale italiano: una sorta di “tertium” tra il mondo
confederale e quello – peraltro molto frastagliato, spesso nebuloso – delle
sigle autonome, in vario modo dislocate nelle diverse categorie merceologiche.
Un’autonomia
altra e alternativa alle forme conosciute, anche quelle rinvenibili, a
diverso titolo, nei sindacati confederali, poiché in essi certamente presente
almeno una quota di atteggiamento autonomo.
E così nei confronti della
miriade di organizzazioni attive nel nostro Paese.
Non basta,
infatti, essere un sindacato di categoria per diventare automaticamente autonomi, e neppure basta dichiararsi tali: le
enunciazioni contano se hanno un referente nei fatti e nei comportamenti, altrimenti
sono suoni senza significato.
La
controprova di tutto questo è intervenuta proprio in occasione della ricerca
dei partner possibili per costruire la FASST: numerose sigle sono state
“evitate”, o perché autonome solo a parole, o perché poco più di piccole
aggregazioni di convenienza.
L’autonomia
della FABI è autentica, perché storicamente praticata all’interno degli scenari
sociali e politici che si sono succeduti da oltre 50 anni a questa parte.
Autonomia
intesa su tre versanti operativi.
Il primo
è quello delle Aziende di credito: netta differenza di fronti e di interessi da
tutelare, pur nel riconoscimento e nel rispetto del ruolo reciproco.
Il secondo
è quello delle altre Organizzazioni unitarie del settore: chiara e precisa distinzione
di natura e di storia, se pure nella ricerca delle opportune convergenze
operative, a difesa dei lavoratori bancari.
Il terzo
è il versante delle forze politiche, soprattutto i partiti.
Su questo terreno la FABI ha la sana presunzione di rappresentare
un’esperienza davvero esemplare.
Nonostante, infatti, le più disparate
interpretazioni avanzate dall’esterno, e magari anche dall’interno, la FABI ha
sempre saputo mantenere ferma una rigorosa e trasparente equidistanza in tutte le stagioni politiche.
Questo equilibrio storico le ha
consentito l’accoglienza delle più ampie e diverse forme di pluralismo, le
quali rappresentano, in ultima analisi, la vera cifra della democrazia.
Ma le ha consentito, altresì, una
collaborazione, ormai consolidata, con le Organizzazioni Sindacali confederali
e autonome, realmente rappresentative, del settore. Il tutto nell’ambito di un
confronto dialettico, a volte anche molto aspro, che le ha comunque permesso
una identità stabile ed inconfondibile.
E’ utile ricordare, a questo punto, anche il valore storico della solidarietà, che da sempre contraddistingue la nostra Organizzazione, la quale si è fatta promotrice di numerose iniziative a tutto campo, senza distinzione di orizzonti di alcuna natura.
Di esse daremo conto nel corso dei nostri lavori.
TESI ED IPOTESI
Vediamo, nello specifico, i temi di maggiore rilievo che il
dibattito della Conferenza è chiamato ad affrontare, con l’obiettivo non solo
di mettere a confronto idee diverse, che dovranno comunque ricercare criteri
comuni, bensì di predisporre le
condizioni per gli eventuali cambiamenti che, a suo tempo, spetterà al
Congresso definire in termini compiuti.
Procediamo con il metodo delle “due
ipotesi”, indicando il livello di elaborazione che ciascun tema ha registrato
nelle occasioni offerte alla discussione dei dirigenti sindacali fino ad ora
coinvolti.
Per alcuni ambiti, invece, è presente
una tesi unica.
Sia la previsione statutaria, sia l’assetto politico stanno bene
così come sono.
Per quanto riguarda, invece, il terreno dell’attività politica, occorre tener conto dell’aumento esponenziale degli impegni e degli appuntamenti istituzionali ed occasionali.
A tale proposito si presentano due
ipotesi, tra loro peraltro molto vicine:
1.
Un Gruppo di lavoro
(di numero variabile) di natura ovviamente tecnica, individuato dalla Segreteria
e utilizzato “ad opera”.
2.
Un Gruppo di lavoro
composto dallo stesso numero di persone e sempre con compiti di natura tecnica
ed organizzativa, individuato dalla Segreteria e comunicato al C.D.C.
Vengono riconfermate, in ogni caso, la centralità del CDC e la sua funzione di organismo politico deliberativo della Federazione.
Una tesi unica.
Il mantenimento del numero attuale, salvo eventuali piccoli ritocchi,
e della frequenza degli incontri. Proprio al fine di mantenere inalterate
funzioni e prerogative, occorre studiare modalità operative parzialmente
diverse, le quali mettano il CDC nelle condizioni di lavorare meglio.
Lo statuto assegna al Consiglio
Nazionale il compito di indirizzo e controllo del CDC in tutto il periodo che
intercorre tra un Congresso e l’altro. Tale compito va sostanzialmente
riconfermato, anche nell’eventualità di qualche cambiamento della sua configurazione.
1.
Vanno mantenute sia
la frequenza attuale (almeno una volta all’anno), sia la composizione numerica.
2.
Mantenere la
frequenza e prevedere una modificazione del rapporto numerico iscritti/delegati
in modo da abbassare leggermente il numero finale.
S.A.B.
Se il CDC riveste il ruolo di centro politico della
Federazione, ai SAB spetta il ruolo di centralità organizzativa, ovviamente
dislocata sull’intero territorio nazionale.
Ad essi spetta il diritto/dovere di
farsi portatori e divulgatori delle delibere e delle decisioni assunte dalla
Federazione, alle quali, peraltro, anch’essi contribuiscono in tutte le sedi
istituzionali ove si sviluppano il dibattito ed il confronto della vita
democratica associativa.
Non si intravede, allo stato, alcuna
modificazione significativa, né per ciò che riguarda l’assetto strutturale, né
per i compiti politici ed organizzativi
ad essi assegnati.
Il processo di cambiamento, vasto e
composito, che ha interessato il settore del credito ha favorito la nascita e
l’affermazione di una nuova realtà societaria: i gruppi creditizi.
E’ del tutto naturale che essi abbiano
acquisito un ruolo sempre più importante all’interno dell’Organizzazione, dove si
sono trovati ad interagire con le altre strutture della Federazione.
1.
Va attentamente
misurato il loro peso ai fini della partecipazione e della composizione dei
diversi livelli politici ed organizzativi della Federazione. Si rende
necessario, dunque, un atteggiamento di grande equilibrio, sia in termini di
partecipazione stessa, sia nella formazione delle candidature.
2.
Pur tenendo conto
della loro crescente importanza, e perciò confermando il contenuto dell’ipotesi
precedente, la partecipazione ai momenti istituzionali e l'ingresso negli
Organismi devono dare la precedenza alle altre strutture storicamente esistenti.
Vanno considerati come importanti
infrastrutture della Federazione, le quali hanno svolto compiti di grande
rilievo e di notevole ausilio per la vita del nostro sindacato.
Due ipotesi sostanzialmente paritarie.
1.
Vanno mantenuti così
come sono.
2.
Vanno riconfermati i
loro compiti, ma si rende necessario un ridimen-sionamento numerico, anche al
fine di favorire una migliore funzionalità. Ad esso va accostata una attenta
valutazione qualitativa per utilizzare al meglio professionalità ed attitudini.
Il livello regionale della nostra
Organizzazione ha trovato, fin dall’inizio, un percorso non facile.
Relativamente giovane rispetto ad altri ambiti già
consolidati, esso ha svolto nel tempo la sua funzione con alterna fortuna, ora
assolvendo a compiti anche di rilevo (soprattutto la formazione), ora
interpretando un ruolo di semplice apparenza; mai, comunque, utilizzando in
pieno le prerogative indicate dalle norme statutarie.
Si affacciano due possibilità:
1.
Lasciare le cose
sostanzialmente inalterate.
2.
Restituire al livello
regionale un peso più apprezzabile, mettendolo in condizioni di esercitare un ruolo
organizzativo più consistente, ad esempio nei confronti della formazione, e di
rappresentanza verso le Istituzioni.
Pur richiamando le stesse metodiche di
funzionamento, il settore dei Pensionati rappresenta una realtà più complessa
di quella tipica di un normale coordinamento e, come tale, va considerato in
una luce del tutto particolare.
A tale proposito appare ancora
piuttosto inadeguata l’attenzione rivolta dai SAB all’iscrizione dei pensionati
ed alla loro assistenza sindacale, accanto, invece, al grande impegno di
elaborazione politica ed organizzativa svolto dalla struttura centrale.
Nell’ambito di questo capitolo non si
presentano due ipotesi, bensì una sola: mantenere una struttura interna dotata
di una regolamentazione particolare – escludendo, dunque, qualsiasi ipotesi di
Federazione “separata”.
I promotori associati all’albo nazionale sono più di 60.000,
circa il 75% lavora per le banche o per Enti Finanziari.
A fronte di questa realtà assistiamo ad
un rilevante sforzo organizzativo, messo in atto, nel tempo, dai nostri
responsabili nazionali, mentre risulta del tutto insufficiente (tranne qualche
lodevole eccezione) l’impegno svolto dai SAB.
Si impone, dunque, un cambio netto dell’atteggiamento dei
nostri dirigenti territoriali nei confronti di questo settore, probabilmente
destinato ad un ulteriore sviluppo.
Abbiamo già previsto con apposite
delibere, il doppio tesseramento dei promotori finanziari a FABI e SNAPROFIN
FABI.
Questa decisione ci consentirà di
coinvolgere, a pieno titolo, dirigenti
e iscritti SNAPROFIN nella vita dei SAB e nelle diverse fasi congressuali.
Per rendere operativa tale previsione,
è necessario individuare alcuni dispositivi per la gestione amministrativa dei promotori
stessi ed i correttivi da apportare ai nostri regolamenti.
E’ indubbio il beneficio che trarrà lo
SNAPROFIN FABI dall’inserimento dei promotori bancari nelle articolazioni
organizzative del sindacato, che potrà così avvalersi di attivisti esperti, in
grado di dedicare più tempo al sindacato stesso e per la maggior parte già
facenti parte di strutture aziendali e territoriali della FABI.
Una ulteriore proposta riguarda la
messa in funzione del comitato di coordinamento che sarà composto dagli attivisti
della FABI e dai rappresentanti dello SNAPROFIN FABI.
Questo organismo dovrà fornire ai SAB,
alle RSA centrali delle grandi banche ed a quelle dei gruppi finanziari le
informazioni, i supporti ed i suggerimenti utili per sviluppare il proselitismo
tra i promotori.
E’ la tipica regione di confine creata
dai cambiamenti profondi degli ultimi anni: un’area già abbastanza estesa e
destinata probabilmente ad aumentare nel prossimo futuro.
Le grandi ristrutturazioni ancora in
corso, i processi di concentrazione, le turbolenze provocate da un mercato con
poche regole rendono particolarmente delicato questo ambito, anche per le
conseguenze che il tutto potrà avere nei confronti della nostra Organizzazione.
Diviene, allora, opportuno non solo
associare coloro che si trovano in questo ambito, ma anche predisporre la
condizione per un loro coinvolgimento nell’attività sindacale, con una
struttura regolamentata.
Le opportunità per creare nella FABI
questo punto di riferimento sono molteplici, legate alla necessità di affinare
uno strumento legislativo nuovo.
I tempi sono ancora più favorevoli
perché saremmo la prima sigla che si pone come interlocutrice credibile nei
confronti di una categoria, la quale rischia di non avere, altrimenti, rappresentatività
alcuna.
Si
può tranquillamente affermare che i due organi di stampa della Federazione
stanno diventando sempre più complementari.
Fabinform ha cadenza settimanale e una
diffusione presso la quasi totalità dei dirigenti sindacali, con una veste e
una natura “tecnica”, tipica dell’informazione continuativa .
La “Voce dei Bancari”, invece, arriva a
tutti gli iscritti ed ha una frequenza mensile, perciò una capacità di
informazione del tutto diversa. La veste, infatti, ed il taglio complessivo dei
servizi configurano la tipologia della rivista, la quale, accanto alla cronaca
sindacale, contiene anche una buona parte di interventi nell’ambito vasto e
composito della cultura.
A proposito da “La Voce” si confrontano,
da tempo, due ipotesi:
1.
Mantenere
sostanzialmente inalterate veste grafica (ovviamente lavorando sui possibili
miglioramenti) e natura della rivista, ricercando adeguata pubblicità per
diminuire i costi tuttora rilevanti.
2.
Spostare il peso verso
servizi di natura più tecnica.
1.
Pensare ad una
struttura plurima, la quale, possa servire
anche alla FASST.
E’ doveroso sottolineare che il settore
della formazione sta vivendo il periodo forse più felice nella storia della
FABI.
Il lavoro parallelo, infatti, tra
l’attività formativa storica della Federazione, articolata su diversi livelli,
e la formazione finanziata dai contributi europei sta fornendo un’ottima prova
di efficienza e di gradimento diffuso.
In particolare quest’ultimo versante è
di grande attualità, poiché consente non solo di acquisire conoscenze tecniche
di respiro più ampio e di ambito europeo, ma di realizzare utili momenti di
scambio tra culture diverse.
Va anche ricordato che la formazione
“interna” si svolge ormai con risorse e disponibilità del tutto autonome, sia
per ciò che riguarda la elaborazione dei programmi, sia per la presenza dei
docenti e dei formatori.
Formazione, dunque, come altro “centro”
del nostro sindacato, terreno da coltivare in modo sempre più esteso e sempre
più aggiornato alle tematiche sindacali ed agli ambiti culturali della nostra
epoca.
Talmente ovvio è l'obiettivo del
proselitismo, da non aver bisogno di essere sottolineato più di tanto, poiché,
di fronte ad un allentamento o peggio ad un'assenza di questo impegno, la vita
dell'Organizzazione sarebbe destinata ad un declino inevitabile.
Meno
scontata, invece, è la ricerca di forme di tutela adeguate nei confronti dei
dirigenti sindacali, soprattutto giovani, i quali, a fronte della prospettiva
di un impegno sindacale di fatto alternativo al lavoro nella banca, sanno di
rinunciare non solo ad ogni ipotesi di carriera, ma anche alle quote di salario
variabile sempre più presenti negli attuali accordi nazionali e aziendali.
Occorre, perciò, individuare una doppia
forma di tutela:
- un livello minimo di compenso per quanto riguarda la parte
del salario variabile, che consenta di non creare una differenza profonda tra
il sindacalista e gli altri componenti dell'unità produttiva;
- una forma di risarcimento da parte dell'Organizzazione a
compensazione di un impegno che, molto spesso, va ben oltre il normale orario
di lavoro.
Accanto a questo va tenuta in considerazione la proposta di legare il percorso professionale del sindacalista (anche distaccato) a quello di tutti gli altri lavoratori presenti in azienda.
L’obiettivo è evidente: occorre assicurare ai dirigenti sindacali un futuro non punitivo sul piano della progressione economica, così come avviene nel resto dell’Europa.
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Vanno brevemente richiamati, a questo punto, tre capitoli
che conten-gono tematiche trasversali, poiché interessano la vita dell’Organizzazione,
ai vari livelli, pressoché in tutte le sue manifestazioni sindacali e
politiche.
Esiste, dai tempi poco successivi
all’ultimo Congresso, il Coordinamento Giovani della FABI, strutturato con le
stesse modalità degli altri, e, parimenti, orientato a lavorare sulle tematiche
e sui problemi che riguardano il settore giovanile dei bancari e dei dirigenti
sindacali.
Ma il compito della nostra
Organizzazione, su questo tema, non si esaurisce in tale ambito. La questione dei
giovani è complessiva per i suoi contenuti, e di lungo periodo in termini
temporali.
Essa interagisce con diverse
prospettive che abbiamo accennato in precedenza; ne annotiamo due in modo
particolare: la flessibilità e la tutela dei sindacalisti.
Entrambe, infatti, riguardano più i
giovani che gli anziani, per evidenti ed intuibili motivi.
Ecco, allora, che si presentano - con
una urgenza se possibile ancora più attuale - la messa a fuoco, ed i
comportamenti conseguenti, di tale area socio-sindacale e l’individuazione di
strumenti adeguati e moderni per sostenerla il più possibile.
L’impegno di analisi, studio, ricerca per la realizzazione delle pari opportunità nei confronti del personale femminile delle aziende di credito e delle donne in campo sociale, si è sviluppato intensamente, in questi anni, tramite le iniziative assunte dal Coordinamento Nazionale Femminile d’intesa con la Federazione.
Il dibattito recente ha
evidenziato con un’indagine sul tema “Le donne nei posti di responsabilità
della Fabi”, la necessità di sensibilizzare correttamente l’Organizzazione ai
vari livelli, con particolare attenzione alla fase di ricambio generazionale
che si sta realizzando nei SAB.
Analogamente, l’impegno nei confronti delle donne si è
attivato sia con iniziative di solidarietà, delle quali una particolarmente
importante verrà ricor-data in sede di Conferenza. Riteniamo opportuno che
altre forme di intervento possano svilupparsi nel prossimo futuro, così come dovrà proseguire la colla-borazione per la realizzazione di
progetti di pari opportunità per le donne nelle aziende di credito.
L’impegno, per le pari opportunità, si dovrà inoltre sviluppare anche per le categorie rappresentate in FASST, estendendo sul territorio progetti e/o iniziative per il personale femminile.
Ambito, questo, che vede coinvolta la FABI praticamente da
sempre ed a pieno titolo, prima nella FIET (Fédération Internationale des
employés, techniciens et cadres) ed ora nell’UNI (Union Network International).
Non c’è bisogno di sottolineare
l’importanza strategica e d’immagine della nostra presenza: a tale proposito di
tutti gli appuntamenti e di tutte le iniziative abbiamo dato conto sempre con
puntualità.
Va invece richiamata, anche in questo
caso, l’interazione che il Dipartimento Internazionale tiene con molti altri settori della nostra
sigla, con idee ed iniziative contenute sia nel quotidiano, sia nel lavoro di
prospettiva.
Due a titolo di esempio.
La presenza negli Organismi sindacali
europei e mondiali consente di osservare e capire le dinamiche di cambiamento
che attraversano l’economia, il mondo del lavoro e il mondo delle Banche;
fenomeni i quali spesso anticipano e comunque influenzano il nostro Paese,
prima o poi, in tutti i settori.
La seconda riflessione interviene nella
dimensione della FASST; ambito per ora circoscritto ad alcune Organizzazioni ed
all’interno de nostri confini; ma – ne siamo convinti – destinato ad ampliare
il proprio raggio fino a trovare anche una collocazione di natura europea ed
oltre.
Fino a qui le proposte di natura organizzativa. Ora, per
chiudere il cerchio delle nostre analisi e delle possibili soluzioni, diviene
opportuno tentare una risposta politica.
Se è vero che da alcuni decenni sembra
trionfare quello che viene comunemente definito come il pensiero unico, è altrettanto vero che la FABI, almeno dallo stesso
tempo, è abituata ad esercitare un pensiero
critico.
In altre parole: di fronte ad una sola
logica, quella egemone e pervasiva del Mercato soprattutto, abbiamo sempre
contrapposto una sorta di cultura del
sospetto, che si sforza di andare oltre la superficie dura e compatta di
una realtà in apparenza irreversibile, dettata da una fredda geometria: Produzione, Consumo, Profitto.
Questa cultura ci autorizza a ricercare
una parola che il vocabolario della Storia più recente sembra avere trascurato,
parola alla quale corrisponde un’idea: Etica.
Non per accostarla a questo o quel soggetto politico od economico al fine di
salvargli la coscienza, bensì per qualificarla con una determinazione precisa: Etica della responsabilità.
Di tutti, naturalmente, ma, prima degli altri, da parte di coloro che esercitano il governo dell’economia e ne controllano i meccanismi.
Essi devono rispondere non solo agli
azionisti che hanno investito i loro soldi, non solo alle ragioni del
dividendo, ma alle ragioni del lavoro,
alle persone che in esse hanno investito condizioni professionali e di vita;
dignità e futuro.
E non basta applicare le norme; ci sono
leggi non scritte, come ci insegna Antigone da più di 2000 anni, che toccano un
sentire universale, alle quali, prima o poi, tutti sono chiamati a rispondere.