iv>A livello planetario, dicono gli economisti, la distribuzione del reddito, anche per effetto della crisi, è in vorticoso divenire.
Il PIL pro-capite di molti paesi in via di sviluppo è cresciuto e, di conseguenza, si è ridotto il divario con i paesi ricchi.
La crescita consentirà a milioni di persone (del Sud est asiatico e del BRIC, Brasile, Russia, India, Cina) di incrementare i consumi individuali e rispondere a nuovi bisogni, anche sociali, diventando parte determinante di una nuova “classe media”.
Si realizzerà, così, un cambiamento di portata storica se è vero che, come dimostrano le proiezioni statistiche, nel 2030, soltanto il 20% della ” classe media” mondiale sarà costituita da americani ed europei.
Pensando ad un precedente storico potremmo paragonare l’emergere della nuova classe media a quella “borghesia” che, in occidente, è sempre stata il centro promotore dello sviluppo e della creatività.
Ma, di fronte a questo epocale cambiamento cosa accade da noi?
I segnali si fanno preoccupanti.
Nessuno fa più scuola o sembra capace di creare allievi.
Nessuno sembra preoccuparsi di come si produce reddito, cioè del modo.
Infatti, il modo in cui si produce reddito (specie nelle Banche ) è fondamentale.
Perché, in primo luogo, occorre rispettare le persone, la salute, le risorse naturali e tecniche, senza discriminare.
Occorre fare il proprio lavoro, a tutti i livelli (cominciando dai Piani Alti) , con onestà, in modo eticamente ineccepibile, perché dai risultati bisogna trarre benefici comuni e proporzionati, equi.
Il pensiero corre, invece, alla sproporzione tra i redditi percepiti da certi manager ed il loro contributo effettivo alla gestione delle banche, oppure al divario, inaccettabile, tra retribuzioni medie dei Quadri e delle Aree Professionali ed i compensi di certi esponenti delle Direzioni Generali.
Ancora di più il pensiero va ai precari.
Abbiamo detto più volte che la precarietà è fonte di frustrazioni in quanto impedisce di dare stabilità alle relazioni sociali e rende tutto provvisorio.
In una fase di cambiamento, la flessibilità non pu ò essere accettata solo quando riguarda chi deve dare una prestazione lavorativa…
Coloro che riescono a fare carriera manageriale, spesso, sono dei replicanti, fedeli al principe di turno e pronti a prostrarsi alla sua corte. Così non s’incoraggiano coscienze critiche e pensiero libero, ma conformismo ed allineamento, che soffocano ogni benefico impulso di creatività.
Questo atteggiamento, quando è compreso dalla generalità dei lavoratori, rischia di far agonizzare la vera speranza di cambiare le cose, alimentando distacco, delusione e freddezza.
Nei negoziati, soprattutto in quelli più complessi, c’è chi vuole trasformare un leale duello tra avversari in uno scontro tra nemici. E, secondo questa logica, il nemico non vuole alcun confronto vero fra idee e progetti diversi, non cerca più l’accordo, ma solo la sconfitta del nemico, magari con l’inganno…
Insomma, quando mancano i “buoni maestri” restano il servilismo e la mediocrità di certi imitatori.
Diceva Hobbes che bisogna guardarsi da una corsa che rischia di diventare “senza traguardo e senza premi, nella quale l’unico obiettivo è quello di sorpassare gli altri…”
Noi, invece, proprio per quello che, con vero orgoglio rappresentiamo per i lavoratori, non ci rassegniamo alla marginalità.
Vogliamo far in modo di vivere in positivo il cambiamento, facendo di tutto perché si realizzi.
Per chi ancora non se ne fosse accorto, il cambiamento nelle relazioni sindacali – in Abi, negli Istituti di Credito – ha un nome: FABI.
La valorizzazione dei quadri sindacali periferici è uno dei nostri obiettivi.
L’equinozio del cambiamento ormai, a tutti i livelli, non potrà più essere fermato.
Da nessuno.