IL GIORNALE sabato 24 dicembre 2011
L'INCHIESTA- Le aziende di credito e la crisi
Banche schiacciate dallo spread pronte a tagliare costi e profitti il crollo dei Btp obbliga i manager ad alzare i tassi di interesse a imprese e famiglie con il rischio di fermare il Paese. La strada: ridurre le spese e i dividendi ai soci
di Marcello Zacché
Nei prossimi 5 anni il numero di persone che metterà piede in una filiale bancaria scenderà del 40-50%. I 30mila sportelli italiani continueranno il processo di svuotamento iniziato con l'affermarsi di canali alternativi per la raccolta e gli investimenti:l'attività in filiale, negli ultimi 2 anni, è calata del 35% e secondo Bankitalia scenderà di un altro 15% nei prossimi 18 mesi. La produttività del sistema nazionale, nell'ultimo triennio, è calata del 3 per cento.
Nello stesso tempo le aziende di credito sono impegnate da un lato a far fronte alla crisi del debito sovrano, che pesa sui bilanci per l'effetto svalutazione dei titoli di Stato; dall'altro a fronteggiare l'assottigliamento dei margini di profitto, che è anche una diretta conseguenza della crisi dei Btp: lo spread elevato costringe ad alzare il costo della raccolta (si pensi che pur con i tassi Bce all'1% le banche offrono rendimenti sui depositi vincolati nell'ordine del 4 e più per cento) e dunque a impiegare il denaro ( mutui alle famiglie, prestiti alle imprese) a tassi che permettano di avere un margine positivo. In altri termini alle banche resta ben poco per remunerare il capitale. Non a caso il «roe» degli istituti italiani (il ritorno sul capitale investito), che nello scorso decennio viaggiava tranquillamente a due cifre, secondo l'Abi (Associazione bancaria italiana) quest'anno si assesterà in media allo 0,3%. Nel 2013, scontata un po' di ripresa, si assesterà al 3%: sono almeno 10 punti percentuali in meno degli anni d'oro.
Infine, dal lato dei «padroni» delle banche, cioè i loro azionisti, i tempi cupi si riflettono nella circostanza antipatica di dover tirare fuori nuovi quattrini ( negli ultimi 3 anni sono già stati effettuati aumenti di capitale per oltre 15 miliardi e altrettanti dovranno arrivare secondo le richieste dell'Eba nei prossimi mesi) senza più vedere dividendi o quasi: Intesa Sanpaolo distribuiva quasi 5 miliardi prima della crisi, ora il nuovo ceo Enrico Cucchiani eredita un piano industriale che se va bene arriverà a un miliardo; l'Unicredit ne dava 3,5 fino al 2008, mentre l'ad Federico Ghizzoni l'anno prossimo lascerà a secco i suoi soci; Montepaschi staccava 5-600 milioni di cedole, ma ora per il presidente (anche dell'Abi) Giuseppe Mussari il tema principale è quello del rafforzamento patrimoniale.
Inevitabile che tutto questo porti delle conseguenze sui crediti alle imprese. Quanto meno perché, come dice Ghizzoni, l'attuale situazione degli spread obbliga le aziende di credito ad alzare i tassi degli impieghi. Viceversa le banche non ci stanno più dentro.
Ecco allora che, dopo la grande crisi, per il mondo del credito, vero e proprio aggregatore di Pil, si apre una fase nuova, in cui è necessario trovare un equilibrio stabile e diverso da quello del passato tra azionisti, clienti e lavoratori delle banche. Questa è la sfida dei prossimi anni. Che, in estrema sintesi, si giocherà su una diversa e minore struttura dei costi: quelli attuali sono troppo alti. Rapporti di cost/income (costi su ricavi) nell'ordine del 60% (ma anche 70%) non potranno essere più supportati dal sistema. Dovranno scendere. Verso numeri che, per i più severi banchieri stranieri devono avvicinarsi al 40%. Secondo previsioni più verosimili, come quelle di Francesco Micheli, capo della delegazione sindacale dell'Abi, che sta trattando con i sindacati il nuovo contratto, bisogna andare verso il 50-52% nel giro di 2-3 anni. Per Micheli il tema della riduzione dei costi «non è una novità, le banche lo fanno da tempo. Ora per ò bisogna andare oltre se no entra in crisi la struttura della banca. Ma attenzione: non si puo' pensare di risolvere la questione solo attraverso processi di riorganizzazione o di riduzione del personale, perché oltre a un certo livello saltano gli equilibri. Quello che serve è una complessiva riorganizzazione del lavoro bancario».
Di che parliamo? Di un banchiere sempre più simile a un promotore finanziario, capace cioè di andare dietro a quei clienti che in banca non ci vanno più. Ma non solo: anche di uno sportello più simile a un supermercato, anche negli orari 8-22. Le filiali saranno sì tagliate, ma soprattutto nelle superfici: locali di 200 metri quadri non servono più, ne bastano meno della metà. Così si tagliano gli incomprimibili costi di struttura. Infine i grandi gruppi dovranno rassegnarsi a tornare a fare principalmente il loro mestiere di banca, tagliando cosulenze e sponsorizzazioni. Così, magari, perderanno anche una parte del potere acquisito in questi ultimi 20 anni. Ma torneranno a fare credito.
Le nuove strategie
Le Popolari ferite dalla recessione: mutui e prestiti solo a chi si conosce attività concentrata sul territorio d'appartenenza «Inutile tenere in vita le imprese senza scampo»
Cinque anni di profonda crisi economica non lasciano scampo: anche le banche popolari, gli istituti che hanno fatto del servizio al territorio la propria bandiera, dovranno ricorrere a un'attenta «selezione della specie» prima di erogare mutui e prestiti a famiglie e imprese. A imporlo sono il diktat sui rafforzamenti patrimoniali pronunciato dall'Eba, l'Autorità europea del settore, e la difficoltà di macinare profitti con i tassi ridotti ai minimi e un'economia prostrata dalla doppia recessione.
Si tratta di un combinato disposto micidiale, a cui in alcuni casi si sommano problemi specifici come quelli di Bipiemme, costretta a una ricapitalizzazione d'emergenza sotto lo stretto controllo di Bankitalia e ancora alle prese con la collera degli obbligazionisti, o quelli del Banco Popolare che dopo aver chiesto uno sforzo ai soci per i guai di Italease ha deciso un profondo riassetto che coniuga la «banca unica », abbracciata per prima da un colosso come Unicredit, all'ottica «federale».
Nel suo complesso l'industria del credito, nel 2012, non potrà che ricorrere a una politica di finanziamenti durissima. Sia perché scarseggia la materia prima, la liquidità, sia perché il «cavallo» produttivo non beve quasi più, confessa al Giornale un banchiere alla guida di un gruppo cooperativo radicato nel profondo e industrializzato nord Italia. A differenza delle precedenti crisi quando c'erano capitani d'impresa pronti a trasformare la generalizzata difficoltà dell'economia in un'occasione per guadagnare quote di mercato o per affacciarsi all'estero, oggi le pmi non stanno manifestando in filiale alcuna richiesta di denaro per investire. La direzione, quasi univoca, è invece consolidare, limitare i danni in bilancio provocati dall'attesa flessione dei consumi.
Stando ai dati raccolti dall'Associazione delle banche popolari ( 97 gli istituti rappresentati per un totale di 9.505 sportelli e 12 milioni di clienti), ancora a tutto settembre il sistema cooperativo aveva spinto gli impieghi totali del 7,3%, rispetto all'anno precedente, a 386 miliardi (+ 5,1% al Nord Ovest, +6,7% al Nord Est, +17,3% al Centro, +5% nel Meridione); solo i mutui alle famiglie erano aumentati del 10,5 per cento. Parallelamente le cooperative sono riuscite a imprimere alla raccolta un balzo dell'8%a 455,1 miliardi di euro. L'anno prossimo, per ò, difficilmente sarà così. Visti i costi proibitivi della raccolta e sofferenze che assomigliano sempre più a un candelotto di dinamite con la miccia accesa e cortissima, la direzione possibile spiega il banchiere - è una sola:ciascuna Popolare dovrà concentrare l'attenzione sulla propria area di presenza storica; perché questo significherà servire al meglio il territorio: «Staremo vicino alle imprese e alle famiglie che conosciamo da tre o più generazioni, ai paesi dove si concentrano i nostri azionisti ». Questione di radici, ma già fuori dalla provincia di riferimento l'atteggiamento sarà diverso, non per paura, ma in quanto sarà l'unico modo per sorreggere le pmi più meritevoli: «è inutile - sottolinea con una determinata amarezza - tenere in vita con la respirazione bocca a bocca imprese senza scampo». Difficile essere più chiari, con tutto quello che questo comporta in termini di costi sociali.
Non solo: la nuova corsa al territorio significa che la struttura delle cooperative sarà sempre più decentrata. Aumenterà l'influenza dei direttori territoriali e dei capi filiale perché sono quelli che meglio conoscono i clienti. L'altra grande leva su cui agiranno le Popolari sono i dividendi, tradizionalmente generosi in quanto interpretati come un tributo all'attaccamento alla banca dimostrato dalla grande «famiglia» dei soci-clienti. Non sarà più così.
Festa finita allo sportello: così cambia il lavoro più invidiato dagli italiani
La busta paga dell'impiegato del credito è più alta di un terzo rispetto a quella del commercio. L'Abi vuole sforbiciare del 20%
Massimo Restelli
Lavorare in banca,l'approdo inseguito da più di una generazione come simbolo di ascesa sociale al punto da ispirare una canzone ai Gufi. «Io vado in banca» a «stipendio fisso così mi piazzo e non se ne parla più» verseggiava Nanni Svampa nel 1966, quando un bancario poteva permettersi l'acquisto di una utilitaria quasi con il solo premio di produzione. Ora non è più così, ma seguire dallo sportello bonifici e prelievi degli italiani continua ad assicurare una busta paga superiore in media di un terzo rispetto a quella che riceve un metalmeccanico o un addetto del Commercio.
Basta questo dato per capire perché l'Abi, l'associazione delle banche italiane, ha ingaggiato un duro confronto con i sindacati per sgretolare alcuni dei «diritti» acquisiti. Il rinnovo del contratto oggi in discussione prevede il taglio del 20% del salario di ingresso dei nuovi assunti e di quello degli addetti delle attività esternalizzate che gli istituti di credito sono pronti a riportare in casa. Un esempio per tutti, il call center che almeno una volta nella vita ha costretto tutti noi a lunghi dialoghi con la finta cortesia delle voci registrate e dei menu a scelta multipla. L'obiettivo dell'Abi di Giuseppe Mussari è nitido: abbassare il costo del lavoro per avvicinarlo a quello delle Poste di Massimo Sarmi, che con il Banco Posta dà filo da torcere soprattutto sulla clientela orientata al low cost. Un bancario alla prima esperienza, quello che il contratto definisce un «apprendista», guadagna in media 1.200 euro per 13 mensilità, cui aggiungere l'indennità di cassa da «terminalista» (200 euro circa) che è per ò difficilmente utilizzata dal momento che il singolo è tutelato da specifiche polizze assicurative di matrice sindacale che rispondono fino a un ammanco di 10mila euro. Non solo: il bancario pu ò contare su 20 giorni di ferie, che lievitano a 25 dopo 10 anni di anzianità, e su 4/5 giorni di festività soppresse. Le stesse che l'Abi vuole ora sospendere insieme a un giro di vite sugli orari, oggi di tutto comodo, per dare la possibilità alle filiali di tenere aperto fino alle dieci di sera. Ad alleggerire la vita del bancario ci sono poi i permessi orari e a dargli una sostanziosa mano economica i contratti integrativi aziendali che negli opulenti anni Ottanta equivalevano ad altri 2.500-3.000 euro.
Oggi la situazione è molto cambiata ma, grazie a un po' di fantasia e al ricorso a mezzi di retribuzione alternativi come buoni benzina o di altro tipo, continuano a tradursi in una mensilità aggiuntiva. Senza contare che le pensioni sono più che rotonde, anche grazie ai fondi integrativi, e a una cassa di previdenza che vede e provvede per ogni problema di salute fino a 200mila euro.
Il motivo è un contratto forte, così come- sia chiaro- quello di cui godono altre categorie professionali, compresa quella cui appartiene l'estensore di questo articolo. A costruire il muro dei contratto bancario sono stati mattone su mattone i sindacati: il credito è infatti uno dei pochi settori dove all'azione delle ex confederali (Fiba-Cisl, Fisac-Cgil e Uilca-Uil) perlopiù impegnate al mantenimento del potere d'acquisto degli stipendi rispetto all'inflazione, si è sommata l'azione della Fabi, il sindacato più rappresentativo del comparto, e quella di altre sigle minori autonome. Non solo, laddove il contratto nazionale si depotenziava i sindacati recuperavano a livello aziendale. Dove è stata ottenuta, oltre all'ampia stabilizzazione dei precari, la staffetta generazionale padrefiglio in forme più o meno conclamate. Ad accordi si deve anche il mantenimento di alcune liberalità aziendali come il vantaggio di pagare tassi di interesse di favore su mutui e prestiti.
Ma anche il lavoro del bancario è cambiato: finita l'epoca della specializzazione spinta in filiale (addetto titoli, fidi, bilanci) ora le casemadri chiedono una figura universale e adatta a una struttura orizzontale e per comparti che fa dialogare l'addetto in filiale direttamente con il capo area dello specifico settore, che a sua volta risponde alla direzione generale. Così il direttore di filiale, che nei casi di maggiore inquadramento (quadro direttivo di 4 livello) pu ò percepire 3.500 euro netti al mese, è diventato più che altro un grande organizzatore.