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IL GIORNALE 13-06-2007
di Redazione - mercoledì 13 giugno 2007, 07:00
Visita in Bankitalia del presidente di Bpm Roberto Mazzotta
e dell’ad di Bper, Guido Leoni. Al centro le nozze tra i due gruppi approvate
dai rispettivi cda per dare vita dalla Popolare delle Regioni. Dopo l’estate
ci sarà il definitivo vaglio dei soci ma tra Milano e Modena continuano le
trattative per definire alcuni aspetti della governance e delle dinamiche
assembleari. Temi su cui si sono già concentrate le critiche
dell’Associazione Amici della Bipiemme, l’ente attraverso cui i sindacati
esprimo 16 dei 20 consiglieri di Popolare Milano. Perplessità consivise da
Fabi, Fisac-Cgil e Fiba-Cisl che ieri hanno ribadito come l’operazione sia
caratterizzata «da ombre senza luci». Ma nel corpus sindacale restano
posizioni anche lontane tra loro.
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TROPPI straordinari e poco personale. I lavoratori di
Cariprato sono in fibrillazione per le carenze della pianta organica e le
prossime aperture, previste entro agosto (dovrebbero essere sette sportelli),
agitano ancora di più i sindacati che nel frattempo devono anche fare i conti
con le fughe in avanti della sigla indipendente Falcri.
I rappresentanti dei dipendenti sono preoccupati perché
secondo loro mancano 50 persone per completare l’organico. La politica della
banca di aprire nuove filiali assumendo solo una parte del nuovo personale ed
attingendo poi dalle risorse interne, per i sindacalisti ha impoverito troppo
sia la sede centrale che altre filiali, tanto che «senza straordinari —
denunciano — molti sportelli sarebbero in grande difficoltà. Ma non si può
andare avanti con 70mila ore di lavoro extra all’anno». I sindacati chiedono
alla banca di fare un maggior numero di assunzioni per coprire anche le
carenze provocate da corsi di formazione e ferie. La Falcri, la federazione
autonoma dei lavoratori del credito, ha addirittura promosso una raccolta di
informazioni sulle difficoltà all’interno degli sportelli, a partire dalla
sede centrale. In più ha inviato una lettera alla direzione mercati e a
quella delle risorse umane.
L’INIZIATIVA però non è piaciuta alle altre sigle
sindacali che ieri hanno rilanciato la vertenza precisando che i problemi,
come «gli straordinari in pausa pranzo, l’incertezza dell’orario di lavoro e
l’utilizzo fuori dal ruolo», non riguardano soltanto la sede centrale ma
tutti: «La situazione è generalizzata — hanno scritto Fabi, Fiba-Cisl e
Fisac-Cgil — e quindi servono soluzioni ed iniziative che coinvolgano tutti i
lavoratori. Altrimenti si fanno solo azioni propagandistiche e demagogiche,
rischiando di creare fra colleghi l’idea che in Cariprato esistano situazioni
lavorative di serie A e di serie B». Poi l’attacco alla Falcri si fa più
diretto: «Ancora una volta dimostra nei fattidi non avere alcun rispetto per
l’unità sindacale in Cariprato, si muove isolatamente non condividendo azioni
che invece, se portate avanti tutti insieme, avrebbero più forza, efficacia
ed utilità». Leonardo Biagiotti
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In città e in provincia, senza un giorno di tregua, si
susseguono gli assalti a istituti di credito, supermercati e corrieri in
servizio di consegna. Ieri le rapine sono state messe a segno tutte durante
la mattinata. Quella con il bottino più alto - ottomila euro - ha avuto come
obiettivo, intorno alle 11, la filiale del Banco di Sicilia di Borgetto. Due
uomini con cappellino e occhiali da sole hanno fatto irruzione nell´agenzia
e, pur senza mostrare armi, hanno minacciato clienti e impiegati. In pochi
minuti, sono riusciti a farsi consegnare i soldi e a fuggire senza lasciare traccia.
Sul colpo indagano i carabinieri.
Con quella di ieri, le rapine al Banco di Sicilia
salgono a quota 42, con sette tentativi falliti. Più di 800 mila euro sono
finiti nelle casse della malavita. L´ultima rapina ai danni del Bds, prima di
quella di ieri, era stata messa a segno lunedì scorso all´agenzia 9 di via
Empedocle Restivo: qui un´impiegata fu presa a pugni perché il bottino di
1.500 euro era parso ai banditi troppo povero. «Un assalto ogni tre giorni,
con dipendenti feriti e clienti terrorizzati - denunciano i sindacati Fabi,
Fiba e Fisac Cgil - è una media impressionante e una situazione da incubo,
che deve indurre tutti i soggetti interessati a interventi urgenti».
In città i rapinatori hanno preso di mira un esercizio
commerciale e hanno assaltato un furgone carico di prodotti alimentari. In
via Leonardo Vigo, alle spalle di via dei Cantieri, intorno alle 12,30 due
ragazzi hanno fatto irruzione nel supermercato Coop e dopo aver mostrato una
pistola a un´impiegata, hanno preso i soldi in cassa. Intascati 175 euro, la
coppia è fuggita a bordo di uno scooter. In via Cristoforo Scobar, alla Noce,
un rappresentante della Galbani è stato aggredito alle spalle da tre
rapinatori. Si accingeva a fare una consegna quando è stato bloccato da due
uomini, mentre un terzo complice pensava a svuotare il furgone dalla merce,
salumi e formaggi.
Presa la refurtiva, il rappresentante è stato privato
del telefonino, spinto nel furgone e chiuso dentro. Soltanto quando si è reso
conto che i tre erano ormai lontani, si è liberato, raggiungendo la cabina
guida. Poi ha chiamato il 113. Sugli ultimi due assalti indaga la sezione
Prevenzione generale della polizia. Carla Incorvaia
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«Siamo molto preoccupati per le ricadute dell´operazione
Unicredit-Capitalia sul personale del Banco di Sicilia, con duemila
lavoratori a rischio, 500 solo a Palermo». È l´allarme lanciato dai sindacati
del Bds, dopo l´audizione ieri alla commissione Finanze dell´Ars.
«L´assessore al Bilancio, Guido Lo Porto - denunciano i sindacati Fisac-Cgil,
Fisa-Cisl, Fabi, Uilca-Uil, Falcri, Sinfub, Dircredito e Lai-Cisl - si è
detto all´oscuro di quanto sta accadendo al Banco». Secca la replica di Lo
Porto: «Non ho mai detto queste parole e ho criticato il loro
disfattismo».
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Riaprono le banche dopo il fine settimana e subito
scatta un nuovo assalto. Una rapina violenta, durante la quale il bandito
forse insoddisfatto per l'entità del bottino (circa 1500 euro) ha mollato un
pugno ad un'impiegata.
Il colpo è stato messo a segno dopo appena quattro
giorni dalle ultime rapine alla filiale del Banco di Sicilia di Balestrate e
alla Banca Antonveneta di via Serradi-falco. Siamo così arrivati al
quarantunesimo assalto tra città e provincia dall'inizio
dell'anno, Questa volta i banditi hanno preso di mira l'agenzia del Banco di Sicilia in via Empedocle
Restivo. Due rapinatori a volto scoperto intorno alle 15 hanno atteso che si
allontanasse il metronotte che fa servizio parziale presso la filiale ed
hanno fatto irruzione nei locali, minacciando clienti e impiegati senza però
mostrare armi. Non sapevano che la filiale è dotata del sistema «roller
cash», cassetti blindati che consentono solo il prelievo del contante legato
all'operazione in corso. I
malviventi non hanno reagito per niente bene a questa contromisura adottata
dall'istituto di credito.
Credevano che ci fosse comunque il modo di poter arraffare altri soldi e nel
tentativo di farsi aprire i cassetti, hanno malmenato e colpito con un pugno
una dipendente che si trovava alla cassa. Subito dopo sono scappati facendo
perdere le tracce. L'allarme è
scattato immediato ma quando sono arrivate le prime volanti in via Restivo, i
malviventi erano spariti dalla circolazione. Per tutto il pomeriggio gli
agenti della scientifica hanno svolto diversi accertamenti nell'agenzia per
rintracciare eventuali impronte digitali lasciate dai banditi. Le indagini
sono condotte dai poliziotti della sezione antirapine della squadra mobile.
Secondo Gabriele Urzì, rappresentante della sicurezza
della Fabi e Giuseppe Angelini dell'osservatorio
sicurezza del Banco di Sicilia, «Ormai la situazione è al collasso -
dichiarano -. Nonostante i provvedimenti adottati dalle banche, Banco di
Sicilia compreso, non si è riusciti a risolvere definitivamente il problema.
Non possiamo consentire che si metta ancora a repentaglio l'incolumità dei colleghi. È assolutamente
necessario che si ripristinino le guardie armate in tutte le filiali, in
quanto l'88 per cento delle filiali rapinate era sprovvista di metronotte». L
G.
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CRIMINALITA' - Rapinata una filiale del BdS. Fabi:
«Situazione al collasso»
La filiale del Banco di Sicilia in via Restivo è stata
rapinata da due banditi che hanno portato via 1.500 euro. La filiale è dotata
del sistema «roller cash» che consente di prelevare il denaro in cassa solo
se è in corso una operazione allo sportello. I malviventi hanno anche
picchiato un impiegato per farsi aprire gli altri cassetti della banca prima
di fuggire. Quello di ieri è il 41/simo colpo dall'inizio
dell'anno ai danni di banche
palermitane. «La situazione è ormai al collasso - ha detto Gabriele Urzì,
rappresentante della sicurezza della Fabi - Nonostante i provvedimenti
adottati dalle banche, Banco di Sicilia compreso, non si è riusciti a
risolvere definitivamente il problema».
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PALERMO. Definiti gli importi del premio aziendale per i
dipendenti del Banco di Sicilia, riferito all'esercizio 2006, che sarà
corrisposto ai 6.400 lavoratori dell'istituto nella busta paga di giugno. II
premio, mediamente di 1.550 euro pro capite, sarà aumentato di una somma a
titolo di liberalità di 250 euro erogate in occasione del quinto anno di
attività del Gruppo Capitalia. Mediamente arriveranno, quindi,1.800 euro
nelle buste paga dei dipendenti. Il premio sarà parametrato a seconda dei
gradi e tiene conto dell'impegno
profuso dal personale per il
raggiungimento degli incrementi di produttività e redditività registrati nel
gruppo Capitalia (vedi la tabella a lato). L'importo
va dai 976 euro del primo livello ai 4.166 del direttore di sede. Otto i
«livelli» dei quadri che prenderanno da un minimo di 1.586 euro a 3.139 euro.
Mentre i dirigenti avranno da 3.139 euro a 3.416 euro (gli ex vice
direttori). Infine, ai direttori andranno 3.977 euro. Secondo Carmelo Raffa e
Gabriele Urzì, dirigenti nazionali della Fabi, l'accordo
sottoscritto «è soddisfacente, in quanto è molto vicino agli obiettivi che il
sindacato si era prefissato di conseguire e tiene conto delle performance
ottenute, nell'ambito di
Capitalia, dal Banco di Sicilia. Confidiamo ora di potere rapidamente
concludere altre importanti trattative, a partire da quelle sugli
inquadramenti e sui ruoli chiave».
Intanto, ieri, i responsabili nazionali di Fabi,
Fisac-Cgil e Fiba-Cisl (rispettivamente Carmelo Raffa, Francesco Re e Gino
Sammarco) hanno incontrato il presidente del gruppo parlamentare dei Ds all'Ars, Anjonello Cracolici, e successivamente i
capigruppo di An Salvino Caputo e di Uniti per la Sicilia Maurizio
Ballistreri. I sindacalisti hanno illustrato loro le ragioni della «forte
preoccupazione per i lavoratori del Banco di Sicilia in merito all'operazione di fusione Unicredit-Capitalia». I
sindacalisti oggi incontreranno i presidenti dei gruppi dell'Udc e della Margherita. Domani i sindacati
saranno ascoltati dalle commissioni congiunte Bilancio e Lavoro dell'Ars e in quella sede chiederanno, tra l'altro, che il Parlamento siciliano «approvi una
mozione che tuteli i livelli occupazionali, salvaguardi i centri direzionali
nell'isola e continui a dare tutte
le tutele ai 550 lavoratori del gruppo Capitalia che prestano attività a
Palermo in Capitalia Informatica, Capitalia Holding, Capitalia Solutions».
Cracolici ha affermato che «mantenere la quota della Regione nel gruppo
Unicredit-Capitalia ha senso solo se si riesce a sostenere una politica del
credito che aiuti davvero la Sicilia». AN. ME.

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ROBERTO PETRINI
ROMA - Pensioni basse e infrastrutture: ceti deboli e
sviluppo. Sarà questa con tutta probabilità la destinazione del «tesoretto»
effettivamente spendibile a favore dell´economia e ridotto ormai a soli 2,5
miliardi (quelli annunciati dalla Trimestrale di cassa nei mesi scorsi). A
dare il via libera alla manovra, dopo la due giorni di incontri del premier
Prodi che comincia oggi con un vertice di maggioranza e prosegue domani con le
parti sociali, sarà entro fine mese il varo di un decreto e del bilancio di
assestamento contenente le nuove stime sull´extragettito (stimato intorno ai
5 miliardi).
La manovra - oggetto di un pranzo a Palazzo Chigi tra
Prodi e i ministri economici - si concretizzerà in un decreto legge e
prevederà la spesa di 700-900 milioni per le pensioni minime e di circa 1-1,5
miliardi per gli investimenti in opere pubbliche dalle strade , alla Tav alle
Ferrovie. Il resto dell´extragettito e cioè gli altri 2-2,5 miliardi sarà
sacrificato invece al ripiano dei conti pubblici 2007: una mini-manovra
correttiva che attingerà al surplus fiscale infatti rappresenterà l´altra
parte del decreto legge. Nel menù dovranno trovare spazio le risorse per i
ministeri, quelle per i debiti pregressi di alcune amministrazione (ad
esempio, le scuole che devono pagare la Tarsu), probabilmente un minor
gettito previsto dagli studi di settore, oltre al finanziamento
dell´intervento sul cuneo fiscale per banche e assicurazioni.
Non resteranno tuttavia a bocca asciutta i pensionati:
il governo è intenzionato ad andare avanti sull´aumento, a partire da metà
anno, delle pensioni basse intorno ai 500 euro con un aumento di 50-70 euro
dal costo inferiore al miliardo, a varare qualche misura per gli
ammortizzatori sociali e a disporre 200 milioni per la detassazione degli
straordinari.
Sulla due giorni del governo e sul ministro
dell´Economia Padoa-Schioppa intanto si esercita la doppia pressione dell´ala
sinistra della maggioranza e degli organismi internazionali. Prc, Verdi, Pdci
e Sinistra democratica ieri hanno riunito i capigruppo per chiedere
l´abbattimento dello scalone di Maroni per il quale, secondo alcune voci, ci
sarebbe una disponibilità a reperire le risorse necessarie. Su fronte opposto
ieri a sostegno del rigore sono giunte le parole del commissario Ue Almunia.
L´Italia, secondo Bruxelles, deve «rapidamente consolidare i conti pubblici»
tagliando al più presto il suo enorme livello di debito e mettendo in atto la
riforma delle pensioni. Nel Rapporto sulle Finanze Ue 2007, pubblicato ieri,
si spiega che l´Italia sul fronte pensioni «non preoccupa», grazie alle
riforme già avviate, ma deve «attuarle pienamente, compresa la revisione dei
coefficienti di trasformazione per evitare significativi aumenti della spesa
previdenziale». La commissione Ue esprime anche incertezze sulla riforma del
Tfr, la quale «riduce il deficit» ma «non migliora la sostenibilità
finanziaria poiché implica future spese addizionali». Anche sul «tesoretto»
l´Europa invita alla prudenza e spiega che destinarlo alle spese
costituirebbe un rischio per le finanze pubbliche.
L´atteggiamento di Padoa-Schioppa è di grande prudenza.
Dopo aver imposto il restringimento dell´area spendibile del «tesoretto» ieri
in Parlamento ha annunciato che domani in consiglio dei ministri porterà un
provvedimento di chiusura di 40 uffici del ministero del Tesoro altrettante
città italiane. Il ministro ha definito un «cambiamento straordinario» la
riforma in corso della legge di bilancio e ha indicato nella
«riqualificazione delle spesa pubblica» la strada da percorrere che non dovrà
prevedere né un aumento di tasse né del deficit.
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LUISA GRION
ROMA - Se gli altri non pagano, tu paghi di più. E´ la
semplice e dura legge dell´evasione fiscale, che fa sì che sulle spalle dei
«buoni» ricada il peso delle malefatte dei «cattivi». Il mancato pagamento
delle tasse, infatti, non si traduce solo nelle minori risorse messe a
disposizione dello Stato per far funzionare le scuole e gli ospedali, ma
anche nel maggior carico fiscale sopportato dagli onesti. Anche chi è poco
sensibile alla cosa pubblica - dunque - non può tirarsi fuori dal gioco:
l´evasione è un danno economico personale. Un danno che l´Agenzia delle
Entrate è riuscita a quantificare, definendo in modo preciso a quanto
corrisponde la «fregatura» che gli evasori propinano ai contribuenti
corretti.
Dati alla mano (gli ultimi disponibili sono quelli del
2004) bisogna parlare di una pressione fiscale apparente e di un´effettiva.
La prima, quell´anno, corrispondeva al 41,42 per cento. La seconda, garantita
sulla pelle del contribuente che non nasconde un euro al Fisco, lievitava al
50,74 per cento del Pil. Chi paga tutto, quindi, paga assai caro: oltre la
metà della ricchezza prodotta. Aggiungendo di tasca sua un 10 per cento in
più che senza evasione potrebbe risparmiare.
Non solo: in cifre assolute gli evasori sottraggono al
fisco 270 miliardi l´anno. A tanto ammonta infatti la base imponibile Iva non
dichiarata (il 33 per cento di quella totale) dalla quale l´Agenzia delle
Entrate è partita per quantificare l´aliquota reale a carico degli onesti.
Tutta ricchezza prodotta, ma mai certificata: totalmente occultata, o
parzialmente celata con sottoffatturazioni dei ricavi o in sovraffatturazione
dei costi.
Un dato che ha subito una paurosa escalation dagli anni
Ottanta in poi, che sembrava destinato a rientrare alla fine degli anni
Novanta e che ora è di nuovo in rimonta. Lo studio dell´Agenzia delle Entrate
(«Le basi imponibili Iva. Aspetti generali e principali risultati per il
periodo 1980-2004») lascia infatti pochi dubbi in proposito: «A partire
dall´anno massimo assoluto dell´evasione (il 1990) - vi si legge - seppure in
presenza di oscillazioni e ciclicità, l´evasione sembra cominciare il suo graduale
rientro, fino ad arrivare al minimo assoluto del 1999, realizzando un
decremento di quasi dieci punti percentuali in dieci anni. Per gli anni più
recenti si osserva, invece, una pericolosa fase ascendente dell´evasione
negli anni 2003 e 2004». Comunque sia, la base imponibile evasa nel 1980 era,
tradotto in euro, di solo 40 miliardi ora raggiunge appunto i 270.
Se si passa dalla base imponibile evasa alle mancate
entrate dovute per l´imposta, l´andamento non varia: i 43,2 miliardi mancanti
nelle casse dello Stato del 2004, solo cinque anni erano più o meno 30 mila.
Dal 2000 al 2004 l´evasione sull´Iva è aumentata del 31,1 per cento.
Considerato che l´imposta sul valore aggiunto regolarmente versata , nel
2006, raggiungeva quota 77,9 miliardi si può dire - sottolinea il rapporto -
che per ogni 100 euro di Iva pagata, ci sono 55 euro evasi (il record
negativo è stato registrato nel 1982 con 60,27 euro per ogni 100 versati).
«C´è molto da recuperare - commenta il ministro della
Solidarietà sociale Paolo Ferrero - a maggior ragione l´extragettito può
essere utilizzato per forme di risarcimento sociale».
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ROMA - L´inflazione per il mese di maggio rimane stabile
all´1,5%: l´Istat ha infatti rivisto al ribasso le proprie stime provvisorie
che avevano previsto una variazione annua dell´1,6%. Stessa rettifica per il
tasso su base mensile, che è dello 0,3% e non dello 0,4%. L´indice armonizzato
Ue è aumentato dello 0,4% congiunturale e dell´1,9% tendenziale. In aumento i
prezzi su base annua di alcolici e tabacchi (+4,4%) e alimentari (+2,7%),
mentre le comunicazioni scendono del 9,1% e i servizi sanitari dello 0,8%.
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WALTER GALBIATI
MILANO - Rinvio a giudizio per quattro colossi del
credito, le americane Citigroup e Morgan Stanley, la svizzera Ubs e la
tedesca Deutsche Bank. L´accusa è di presunto aggiotaggio, perché nell´ultimo
anno di vita della Parmalat avrebbero divulgato notizie false per poter
costruire operazioni finanziarie, come le cartolarizzazioni, ed emettere
oltre un miliardo di obbligazioni. Finite poi in default. Il giudice per
l´udienza preliminare, Cesare Tacconi, ha fissato l´inizio del processo per
il prossimo 22 gennaio. E ha rigettato tutte le eccezioni di incompetenza
territoriale avanzate dagli avvocati delle banche. Le difese hanno chiesto di
trasferire il processo a Parma, sia per ragioni di connessione, in quanto il
reato di aggiotaggio sarebbe da considerare tra le operazioni dolose che
hanno cagionato lo stato di insolvenza di Parmalat (procedimento attualmente
in corso a Parma), sia per il fatto che il reato si è consumato dove ha sede
il gruppo alimentare.
Tacconi ha anche rigettato le eccezioni di difetto di
giurisdizione, sostenendo che anche le banche estere devono adottare quando
operano in Italia i modelli relativi alla "231", la legge sulla
responsabilità amministrativa. La decisione è stata accolta con soddisfazione
dal pm Francesco Greco che, con i colleghi Eugenio Fusco e Carlo Nocerino, ha
condotto le indagini. «È la prima volta - ha osservato il magistrato - che si
fa un processo alle banche accusate di avere manipolato il mercato. Sarà un
processo molto difficile».
Un pensiero è andato anche ai risparmiatori traditi. «La
speranza è che possano ottenere il risarcimento del danno subito anche se i
tempi sono stretti e incombe la prescrizione», ha aggiunto Greco, auspicando
poi che, pur non volendo disimpegnarsi dal processo, sarebbe «auspicabile che
tutti i soggetti coinvolti trovassero una soluzione extragiudiziale».
Le banche dal canto loro rifiutano ogni accusa.
Citigroup si dice convinta che «il vaglio dibattimentale consentirà di
accertare l´estraneità ai fatti contestati e confermerà che la banca fu parte
offesa della più grave bancarotta fraudolenta della storia italiana del
dopoguerra». Morgan Stanley, invece, sostiene di non aver mai saputo dello
stato di dissesto del gruppo di Collecchio e che le operazioni e la condotta
della banca, nonché dei suoi dipendenti, «sono state del tutto corrette».
Ciascuna transazione è stata avviata e portata a termine dopo «un´appropriata
due diligence e senza conoscere l´insolvenza di Parmalat». Deutsche Bank
conferma «piena fiducia» nei dirigenti coinvolti e promette che «contesterà
vigorosamente» il procedimento. Ubs «rimane dell´avviso che l´operazione
nella quale è stata coinvolta sia valida e che non abbia alcun comportamento
da parte sua o da parte di suoi dipendenti che possa qualificarsi come
concorso in un reato di aggiotaggio».
Diversa, invece, la scelta di Nextra, la società di
risparmio gestito del gruppo Intesa, che ha chiesto il patteggiamento.
Nell´udienza fissata per il prossimo 18 giugno il gup Tacconi si dovrà pronunciare
sulla sanzione da infliggere alla banca e sulla pena per i suoi dipendenti.
L´accordo di patteggiamento prevede una pena a sei mesi di reclusione per
Marco Valsecchi, Antonio Cannizzaro, Marco Ratti e Giovanni Landi.
La notizia del rinvio a giudizio ieri ha mosso il titolo
in Borsa che ha chiuso in rialzo del 2%, spinto dalla speranza degli
investitori di incassare i risarcimenti delle banche e dal posizionamento di
Merrill Lynch, che ha comunicato di detenere dal 7 giugno il 2,269% di
Parmalat.
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ETTORE LIVINI
DAL NOSTRO INVIATO - PARMA - Il 25 luglio prossimo il
Gup di Parma Domenico Truppa deciderà se rinviare a giudizio o prosciogliere
Cesare Geronzi e altri sette manager di Capitalia nell´ambito del processo
per la vendita delle acque minerali Ciappazzi da Giuseppe Ciarrapico alla
Parmalat. Un´operazione da 35 miliardi di vecchie lire che secondo i pm
sarebbe andata in porto solo per le forti pressioni dell´istituto romano,
interessato a pilotare la cessione «di un complesso aziendale dal valore
nullo» per dare ossigeno al suo debitore Ciarrapico, garantendo in cambio di
un prestito di 50 milioni all´azienda di Collecchio. Questi soldi tra
l´altro, secondo la ricostruzione della procura, sarebbero stati girati
immediatamente alle aziende turistiche di famiglia di Calisto Tanzi, alle
prese all´epoca con una drammatica crisi di liquidità.
Ieri all´ultima udienza preliminare al tribunale di
Parma sono intervenuti con le arringhe finali i legali del presidente di
Capitalia e della banca romana, presente come responsabile civile. La memoria
difensiva depositata dall´avvocato Ennio Amodio, oltre a contestare il
presupposto della conoscenza dello stato di insolvenza di Parmalat da parte
dei vertici dell´istituto, è tornata all´attacco della credibilità di Calisto
Tanzi e di Fausto Tonna. Proprio l´ex numero uno del gruppo e il suo braccio
destro, nel corso dei loro interrogatori, hanno parlato a più riprese delle pressioni
di Capitalia e di Geronzi - indagato per concorso in bancarotta e usura - per
chiudere l´acquisto delle fonti minerali siciliane a un valore spropositato,
visto che tra l´altro all´epoca Ciappazzi non disponeva nemmeno delle
concessioni per l´estrazione delle acque. Il pm di Parma Vincenzo Picciotti
procederà ora per iscritto alle sue repliche e dopo le controdeduzioni delle
difese - che hanno tutte chiesto il proscioglimento - il Gup deciderà il
prossimo 25 luglio il destino degli imputati. L´iter del procedimento - in
caso di rinvio a giudizio - è ancora da definire. La procura di Parma,
infatti, sembra orientata a chiudere in tempi brevi tutti i vari tronconi del
crac Parmalat oggi in fase preliminare (oltre a Ciappazzi ci sono il filone
principale che vede imputati Tanzi, i manager e i revisori, Eurolat e
Parmatour) per poi riunirli in fase di dibattimento. Una scelta di
"economicità" per le scarse risorse a disposizione degli uffici
giudiziari di Parma che avrebbe come conseguenza l´allungamento dei tempi
delle sentenze di primo grado. L´ipotesi di un maxi-processo vede
curiosamente favorevoli Tanzi, Enrico Bondi e persino la difesa di Geronzi,
interessata a posticipare un eventuale verdetto negativo.
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VITTORIA PULEDDA
MILANO - Le audizioni del collegio sindacale e di
Massimo Faenza, ex amministratore delegato di Banca Italease, non hanno certo
concluso le indagini della Consob sulla banca, né la ricostruzione di quanto
è avvenuto negli ultimi mesi, in particolare sul rischio derivati. Anche ieri
e nei prossimi giorni continueranno le audizioni, mentre lo stesso presidente
della Commissione, Lamberto Cardia, ha sottolineato che «vanno avanti gli
approfondimenti».
Entro la fine di questa settimana si potrebbe arrivare
ad avere maggiore chiarezza del quadro complessivo; poi si vedrà come
procedere. Nel frattempo, il titolo ha ripreso a soffrire in Borsa: ieri il
prezzo di riferimento è sceso di quasi il 5%, dimostrando il nervosismo con
cui il mercato continua a guardare alla situazione, in mancanza di risposte
chiare. Il primo dubbio riguarda l´identità delle controparti bancarie che
hanno montato le operazioni in derivati. «Come nelle barzellette, è una
francese, una inglese e una tedesca», scherza una fonte vicina agli
avvenimenti. E magari è proprio così. Resta poi da capire un passaggio
successivo: come è stato possibile costruire prodotti così
"sbagliati" rispetto all´andamento del mercato e tali quindi da
esporre i sottoscrittori (i clienti di Italease in questo caso) a perdere
almeno in teoria così tanti soldi? Secondo alcune ricostruzioni, il
"prezzo" (cioè i valori espressi nei derivati) sarebbe fuori mercato
in maniera pesante, come in genere non avviene su questi prodotti, anche
perché tra il cliente finale e chi ha "impacchettato" i derivati
c´è stata l´intermediazione di Banca Italease. Quindi, i prodotti sono stati
visti e studiati da almeno un paio di soggetti professionali qualificati.
Insomma, gli aspetti non chiari sono numerosi, compresa ovviamente l´identità
di quei 20 super-clienti che hanno sottoscritto il 60% del controvalore di
questi prodotti.
Return
di Redazione del 14-06-2007
Possibile riassetto azionario in vista per Banca Carige,
protagonista ieri di un passaggio monstre al mercato dei blocchi,
corrispondente al 10% del capitale ordinario. Il sentore di qualche manovra
in atto era già nell’aria. Il 4 giugno, come segnalato da F&M, Piazza
Affari aveva acceso i riflettori sull’istituto ligure innescando una pioggia
di acquisti sul titolo, sull’onda di speculazioni legate a possibili annunci
di operazioni straordinarie. Un’ulteriore conferma che sul gruppo presieduto
da Giovanni Berneschi si stia giocando qualche partita rilevante è arrivata
ieri: ai blocchi sono infatti transitati cinque pacchetti, per un totale di
121 milioni di azioni (il 9,99% del capitale), al prezzo medio di 3,4 euro
per azione (ieri il titolo a chiuso a 3,54 euro). I principali indiziati
sembrano WestLb, che in base alle informazioni Consob risulta titolare del
4,99%, e la Fondazione CR Genova e Imperia, che controlla il 43,37 per cento.
Alcune fonti finanziarie segnalano infatti che già nei giorni scorsi c’era
stato qualche passaggio di pacchetti da parte di due dei principali soci di
Carige (un altro azionista di peso, la francese Cncep, ha l’11%). Per il
mercato sarebbe in arrivo un nuovo azionista, che punterebbe a stringere con
Carige un’alleanza strategica nel Nord. Un identikit che potrebbe
corrispondere a quello dell’ultima zitella di rango del panorama bancario
italiano, il Montepaschi. Fonti vicine a Rocca Salimbeni hanno però fatto
sapere a F&M che l’istituto senese è estraneo al rastrellamento. Ma il
giallo resta. E quel 10% deve pur essere finito nel portafogli di qualcuno.
Return
di Luca Testoni del 14-06-2007
Il caso Parmalat segna un altro capitolo storico della
storia giuridico-finanziaria italiana. Il gup Cesare Tacconi ha riviato a
giudizio (prima udienza il 22 gennaio) quattro banche (oltre a una decina di
persone) con l’accusa di aggiotaggio, applicando la legge 231 sulla
responsabilità amministrativa delle aziende. E, soprattutto, applicandola a
istituti esteri operanti in Italia: Deutsche Bank, Citigroup, Ubs e Morgan
Stanley. Un segnale «positivo per i risparmiatori», ha commentato il Pm
Francesco Greco. «È la prima volta - ha continuato - che si farà un processo,
che sarà molto difficile, alle banche accusate di aver manipolato il
mercato». E la procura, ha aggiunto, «continua a indagare». Il gruppo di
Collecchio è collassato a fine 2003 nella più grande crack italiano, con un
buco di oltre 14 miliardi di euro. Parmalat non aveva mai guadagnato una lira
dalla quotazione nel 1992 (a differenza di quanto dichiarato). Sono stati
proprio gli istituti esteri, dal 1990 in poi, a sottoscrivere l’80% dei 7,5
miliardi di bond dalla società. Del resto, l’ex commissario e attuale ceo
Enrico Bondi ha già raggiunto accordi di transazione per 775 milioni di
dollari. In gennaio, Deloitte ha accettato di pagare 149 milioni di dollari
per chiudere la causa. Mentre Nextra ha chiesto di patteggiare con oltre 150
milioni: l’udienza è prevista il 18 giugno. A luglio Tacconi deciderà se
rinviare a giudizio Bank of America.
Il titolo ha festeggiato con un guadagno del 2,05 per
cento. L’avvio di un processo penale a carico delle quattro banche è un
segnale forte. Proprio la dura reazione degli istituti è il segnale della
svolta del Tribunale milanese: ognuna delle banche coinvolte ha preso una
posizione decisa contro il provvedimento. In particolare, Tacconi ha respinto
le eccezioni di difetto di giurisdizione sollevata dalle difese di Ubs,
Deutsche e Morgan Stanley, sottolineando che «nel momento in cui l’ente
estero decide di operare in Italia ha l’onere di attivarsi e di uniformarsi
alle previsioni normative italiane. Ragionando diversamente, l’ente si
attribuirebbe una sorta di autoesenzione dalla normativa italiana in
contrasto con il principio di territorialità della legge». Una sorta di
rivincita, sul campo della giurisdizione territoriale, rispetto alla partita
persa contro Bank of America ed Eurofood. Per la controllata irlandese di
Parmalat, e i suoi tesori nascosti, era stato chiesto il fallimento a Dublino
(prima della dichiarazione a Parma) per sottrarla alla giurisdizione e alle
cure delle procedure italiane. Negli anni successivi, Bondi e Bofa,
creditrice di Eurofood, si sono scontrati davanti a più Tribunali, in Italia,
a Dublino e alla Corte di Giustizia europea. La battaglia è proseguita anche
sul decreto del Governo italiano che aveva tentato di ammettere Eurofood all’amministrazione
straordinaria: Bofa e il liquidatore di Dublino sono ricorsi al Tar. E da qui
il ministero si è rivolto al Consiglio di Stato. Ultima puntata qualche mese
fa. A gennaio la corte ha dovuto annullare il decreto del Ministro. Ma dietro
le quinte c’è chi dice che la partita non è chiusa. Esperti di diritto
leggono nella sentenza del Consiglio un preciso suggerimento al governo nel
caso di un nuovo decreto. Per il quale potrebbe fare riferimento all’articolo
26 del Regolamento comunitario in materia, che contiene una clausola di
ordine pubblico per cui, allorché il ministero ritenesse la ricorrenza dei
presupporti, potrebbe portare al non riconoscimento in Italia della procedura
irlandese. Così una delle più brucianti sconfitte di Bondi potrebbe
ribaltarsi in vittoria.
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Mentre da Bruxelles arriva una dichiarazione che equivale
a un informale via libera al riassetto proprietario di Telecom Italia, l’ex
monopolista accelera sulla separazione della rete. Ieri è stato avvistato
alla sede Telecom in Piazza Affari Franco Bernabé, vicepresidente di
Rothschild Europe. Alcune fonti fanno notare che il manager è un habitué nel
quartier generale Telecom. La banca d’affari ha infatti da alcuni mesi sulla
sua scrivania il dossier sulla separazione della rete d’accesso, che ora
potrebbe subire un’accelerazione. Lo stesso Corrado Calabrò, presidente
dell’Agcom, martedì ha ventilato un accordo «entro luglio», spiegando
all’Adnkronos che un ulteriore ritardo nella definizione della questione «non
giova al sistema né a Telecom». Del resto, nonostante il rimbalzo di ieri, il
titolo del gruppo tlc langue in Borsa poco sopra i 2 euro, e ora il mercato
reclama un nuovo corso per uscire dall’impasse. A partire dall’acquisizione
di Olimpia da parte di Telco, il veicolo partecipato dalla spagnola
Telefonica assieme a Generali, Mediobanca, Sintonia e Intesa Sanpaolo. Ai
futuri soci di controllo la Commissione Ue ha indicato in una lettera che non
è necessario il via libera di Bruxelles per la validità dell’accordo. Il
riassetto, e in particolare l’ingresso di Telefonica, non comportano fenomeni
di concentrazione e non determinano posizioni dominanti che richiedano
l’avvio di un’istruttoria. La palla è saldamente in mano alla cordata
italo-spagnola, che punta a chiudere presto, anche se ieri l’ad di Generali,
Giovanni Perissinotto, ha cautamente parlato di closing «entro l’anno». La
prospettiva di una svolta ha comunque indotto Bernestein a promuovere il
titolo a outperform dal precedente market perform con target innalzato da
2,35 a 2,5 euro sulla base di «tre fattori chiave: la valutazione, le attese
degli investitori e la convinzione che l’atteso cambio della proprietà porti
vantaggi sia strutturali, sia regolatori». In attesa degli eventi - e
dell’atteso rimpasto dei vertici - l’attuale management però va avanti. Ieri
il board, dopo avere approvato il Form 20-F sui conti 2006 per la Sec
statunitense, ha dato il via libera all’incorporazione di Progetto Italia in
Telecom. Secondo indiscrezioni, il cda avrebbe anche esaminato una relazione
informale del comitato per il controllo interno relativa alla security e alle
indagini sui dossier illegali che hanno coinvolto l’ex dirigente Telecom,
Giuliano Tavaroli.
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Il puzzle Eurizon sta prendendo forma, e gli ultimi
tasselli potrebbero essere sistemati già nel fine settimana. Gli occhi sono
tutti puntati sull’agenda di lunedì, quando le Fondazioni azioniste della
controllante Intesa Sanpaolo, che stanno studiando l’ipotesi di entrare
direttamente nel capitale di Eurizon, incontreranno i vertici dell’istituto.
Gli argomenti da discutere non si limiteranno però alle modalità di
quotazione di Eurizon (che dovrebbe arrivare a Piazza Affari senza le
attività di asset management) ma bisognerà discutere di nodi non meno
spinosi. In cambio di un sostegno alla quotazione di Eurizon, che porterà al
conseguente deconsolidamento del polo del risparmio da Intesa-Sanpaolo, le
Fondazioni chiedono infatti garanzie che la loro attività non sarà offuscata
dalla imminente partenza di Banca Prossima, istituto specializzato per gli
interventi nel sociale che Intesa Sanpaolo lancerà entro l’anno. Mentre la
Fondazione Sanpaolo, guidata da Franzo Grande Stevens, vuole rassicurazioni
sul mantenimento dell’autonomia della Banca dei territori, il polo retail
guidato da Pietro Modiano con sede a Torino che sta perdendo terreno nei
confronti di Milano.
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autore: Sergio Bocconi categoria: REDAZIONALE
MILANO — E ora si pensa al consiglio di gestione. Pronte
le liste per il board di sorveglianza, che verrà nominato dall'assemblea del 27 giugno, in Mediobanca si
riflette sul team di management. Il primo compito del consiglio nel quale
sono rappresentati gli azionisti e che sarà presieduto da Cesare Geronzi (al
quale ieri l'amministratore
delegato di Intesa-Sanpaolo Corrado Passera ha rivolto gli auguri «per il
lavoro importantissimo che ha da fare»), è costituire la squadra che deve
gestire la banca. I tempi sono stretti perché per il primo luglio, data d'introduzione della governance dualistica e inizio
del nuovo esercizio, tutto dev'essere
pronto.
Sotto il profilo dei numeri, il consiglio di gestione
può avere fra tre e nove componenti, con l'avvertenza
(per legge) che oltre la soglia dei quattro partecipanti uno dev'essere esterno, indipendente. Sembra trovi
conferma che Gabriele Galateri, oggi presidente del consiglio di
amministrazione dell'istituto,
venga nominato presidente del board di gestione e che l'orientamento
sia per una «squadra corta», cioè costituita da un gruppo di manager non
vicino alla soglia massima prevista. Nelle ultime settimane le voci che
accreditano il possibile «trasloco» di Galateri alla presidenza di Telecom
non hanno trovato conferma, perciò almeno fino a questo momento l'attesa è che il copione venga rispettato. Copione
che potrebbe anche prevedere la nomina di Alberto Nagel da direttore generale
a consigliere delegato (figura reintrodotta dallo Statuto) e di Renato
Pagliaro a direttore generale.
La governance scelta da Mediobanca prevede la netta
separazione fra le responsabilità dei board. Il consiglio dei manager (al
quale il patto affida un «presidio essenziale per salvaguardare fisionomia,
funzioni e tradizioni d'indipendenza
dell'istituto) compie le
operazioni di ordinaria e straordinaria amministrazione, propone al consiglio
di sorveglianza il progetto di bilancio, i piani industriali e finanziari, le
modifiche statutarie. Su un punto le competenze sono ripartite: le
partecipazioni strategiche (oggi Generali e Rcs). I manager possono decidere
di movimentare fino al 15% delle quote in possesso. Oltre quella soglia
invece portano la proposta al board di sorveglianza. Stesso procedimento per
le operazioni che, per le dimensioni (oltre i 750 milioni) comportano
variazione nel perimetro del gruppo.
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categoria: REDAZIONALE
Né Milano, né Torino. Il primo meeting tra i manager di Unicredit
e Capitalia si terrà domani a Torino, dove ha sede la corporate university
del gruppo. «E' l'inizio ufficiale dei lavori di integrazione», ha
spiegato ad Apcom Paolo Fiorentino, vicedirettore generale di Unicredit. Per
Unicredit sarà presente anche l'amministratore
delegato Alessandro Profumo, per Capitalia il direttore generale Carmine
Lamanda.
L'incontro
che si terrà al centro di formazione professionale di Unicredit,
Unimanagement, coinvolgerà un centinaio di manager delle prime linee dei due
gruppi bancari destinati a fondersi.
Il summit di venerdì, ha proseguito Fiorentino, «sarà il
primo di una lunga serie. Sono stati identificati circa 80 progetti da
portare avanti per arrivare all'integrazione
completa, che prevediamo per il 2008».
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autore: S. Riz. categoria: REDAZIONALE
ROMA — L'accusa
arriva da Lanfranco Turci, Rosa nel pugno. Eccola: il ministro Giulio
Santagata e i sindacati starebbero affossando la commissione per valutare le
pubbliche amministrazioni che dovrebbe ospitare il Cnel. È l'«autorità anti-fannulloni» che il ministro delle
Riforme Luigi Nicolais vorrebbe istituire con un emendamento al ddl sulla
semplificazione amministrativa, dal quale però adesso sarebbe stralciato.
Santagata replica così: «Ho chiesto lo stralcio perché questo nuovo organismo
presenta elementi di forte sovrapposizione con i compiti del comitato
tecnico-scientifico per il controllo strategico nelle amministrazioni dello
Stato e del dipartimento per l'attuazione
del Programma». Cioè il suo ministero.
Domanda inevitabile: forse Nicolais non aveva parlato a
Santagata prima di proporre la commissione?
E perché il problema di «sovrapposizione» è venuto fuori
soltanto adesso? Rumoroso è, a questo proposito, il silenzio di Nicolais. Ma
ancora di più fragoroso è il contenuto di una lettera spedita il 4 giugno al
ministro delle Riforme con cui Cgil, Cisl e Uil bocciano la commissione
anti-fannulloni definendola «un altro piccolo feudo di potere dai costi e dai
poteri eccessivi e non comprensibili». I tre sindacati avvertono Nicolais che
con l'emendamento «si contravviene
a quanto esplicitamente previsto nel memorandum siglato da Lei in tema di
costituzione di un "comune gruppo di lavoro", spostando ogni
prerogativa alla commissione indipendente che, di fatto, si arrogherebbe
qualsiasi potestà».
La bocciatura dei sindacati e l'altolà
al ministro Nicolais sul contratto
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MILANO — L'economia
sarà anche in ripresa. Ma i dati del risparmio gestito, brutalmente, sono da
recessione: la raccolta netta dei fondi d'investimento
italiani è in rosso, con un'emorragia
di 80 miliardi in quattro anni. Un rapporto circolato ieri al comitato di
Piazza finanziaria, riunito dal ministero dell'Economia
presso Borsa Italiana, parla di «serie minacce» alla sopravvivenza «di una
componente fondamentale di un moderno mercato dei capitali». E Marcello
Messori, presidente di Assogestioni, all'uscita
dall'incontro riconosce che i
problemi sono «strutturali».
Professor Messori, come spiega il declino delle gestioni
italiane in un Paese che ha nel risparmio un punto di forza?
«Un fattore è che i prodotti esteri hanno un trattamento
fiscale vantaggioso. In secondo luogo, il mercato italiano fa i conti con
regolamentazioni più complesse che altrove: ogni società del risparmio
gestito si confronta con Consob, Banca d'Italia,
Isvap e Covip. Poi c'è uno
squilibrio rispetto a altri prodotti finanziari che il pubblico percepisce
come equivalenti, ma che garantiscono molta meno trasparenza».
Di cosa parla?
«Delle obbligazioni strutturate e in parte dei prodotti
finanziario-assicurativi. Mentre negli altri Paesi europei vanno principalmente
agli investitori professionali, da noi è rilevante il peso delle famiglie».
Intende dire che le banche dovrebbero astenersi dal
vendere al dettaglio prodotti così rischiosi e poco comprensibili?
«Non si può chiedere a un operatore di rinunciare a offrire
ciò che ritiene conveniente. Ma di fronte a prodotti così complessi, l'offerta condiziona la domanda. Dunque le autorità
dovrebbero regolare il fenomeno del boom delle obbligazioni strutturate e
imporre più trasparenza. Le sigarette non sono proibite, ma sul pacchetto c'è scritto che fumare uccide».
Alla base, in fondo, c'è
il problema del rapporto fra banche e fondi: il governatore Mario Draghi si
preoccupa degli intrecci azionari e della subordinazione dei fondi. Concorda?
«Ignorare l'importanza
del canale bancario in Italia sarebbe irrealistico. Il governatore attira l'attenzione sui rapporti fra produzione e
distribuzione, ossia fra chi crea un fondo e chi lo vende allo sportello. E
in effetti gran parte dei costi alla clientela in Italia sono dovuti alla
distribuzione, ben più che nella media europea».
Giusto allora separare l'industria
del risparmio e le banche?
«No, se l'effetto è che la produzione di fondi
d'investimento emigra all'estero. I dosaggi possibili fra produzione e
distribuzione sono molti in realtà. È su questa varietà che bisogna puntare:
è l'unico modo per tenere un po' di industria dei fondi nel Paese e non restare
solo con la distribuzione».
La debolezza dei fondi italiani si traduce anche in
debolezza del governo d'impresa in
Italia?
«Assogestioni non detiene azioni, ma in futuro vorrei
convincere i nostri associati a essere più attivi nelle assemblee e nella
presentazione di liste di minoranza. Ciò vale soprattutto per le imprese con
problemi di governance e risultati non brillanti. I fondi devono assumersi
questa responsabilità di sistema». Federico Fubini
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di Redazione - giovedì 14 giugno 2007, 07:00
da Milano - Nell’era della finanza, questa in cui
viviamo, dove il predominio delle banche sull’industria è conclamato, i
protagonisti delle scelte sono i banchieri d’affari. Signori che, come tutti,
salgono e scendono. Gli straordinari cambiamenti che, dopo lo smottamento
Parmalat, sono accaduti in questi ultimi 2 anni, da Antonio Fazio e dalla
scalata Ricucci-Rcs, a Mario Draghi e alla fusione Unicredit-Capitalia, hanno
fatto selezione: nulla è più come prima nella geografia dei banchieri d’affari.
Nell’«età dell’oro» degli anni Novanta il filone era
quello delle privatizzazioni. Dalle banche alle utility, la gara dei mandati
miliardari, secondo un alto funzionario del Tesoro «aveva 4 protagonisti:
Claudio Costamagna per Goldman Sachs, Panfilo Tarantelli di Schroders, Marco
Capello di Merrill Lynch e Ruggero Magnoni di Lehman Brothers». Tutti
stranieri e politicamente amici della sinistra egemone di quei primi anni di
seconda Repubblica. Dove all’Iri era tornato Prodi. Del quale è arcinoto, per
esempio, il rapporto speciale con Goldman, di cui è stato consulente. Di
Italiani al top c’era solo Mediobanca, dove al vertice del servizio
finanziario sedeva Gerardo Braggiotti, alla guida di giovani come Alberto
Nagel e Matteo Arpe. Mentre sul fronte privato teneva il passo Euromobiliare
dove, insieme con Guido Roberto Vitale, si muoveva Arnaldo Borghesi (mente
del primo sbarco in Borsa di Berlusconi, quello di Mondadori). Anche Morgan
Stanley, con Galeazzo Pecori Giraldi, stava in serie A. E con Claudio Sposito
svolse un ruolo di primo piano in un’altra Ipo di peso, quella di Mediaset.
Completano il quadro dei padroni del vapore il Csfb, con Andrea Morante, e
l’Imi di Rainer Masera: la coppia riuscì ad aggiudicarsi il collocamento Eni
e successive tranche.
Una stella del firmamento bancario fu Federico Imbert,
al vertice di JpMorgan. Divenuto star con la scalata Telecom di Colaninno,
Imbert diventa il banchiere di riferimento della filiera bresciana di Emilio
Gnutti. E riesce anche a essere ben visto a destra, negli anni del secondo
governo Berlusconi, fino a orchestrare due collocamenti targati Fininvest:
Telecinco e il 15% di Mediaset. La sua stella è ora in secondo piano. Non
tanto per la vicenda Parmalat, quanto per il tramonto della razza padana. Mentre
il collocamento flop di Saras dell’anno scorso, con il seguito giudiziario in
corso, non ha aiutato. Lungo la strada ha pure perso il suo braccio destro
Alessandro Rombelli, messosi in proprio.
Il «cambio di generazione» in corso ha favorito i marchi
nazionali. «Oggi i banchieri italiani - dice un banker - sono molto più
ascoltati di dieci anni fa». Due i nomi su tutti: quelli di Gaetano Micciché
e di Sergio Ermotti. Il primo è responsabile del corporate di Intesa
Sanpaolo. Sulla sua scrivania i dossier delle grandi operazioni, da Telecom
ad Alitalia. Il secondo - che in verità è ticinese - è il capo
dell’investment banking di Unicredit e si appresta a esserlo anche dopo la
fusione con Capitalia. Operazione che ha invece costretto a un passo indietro
l’ex enfant prodige Matteo Arpe.
In secondo piano, rispetto ai fasti del passato,
sembrano muoversi sia Lehman, sia Goldman, sia Citigroup (che ha assorbito
Schroder e Tarantelli), sia Morgan Stanley. La prima ha ancora nei ranghi
Magnoni. E ha costituito un board di nomi importanti quali Masera, Francesco
Mengozzi e Francesco Caio, ma forse un po’ «datati». Mentre Magnoni è preso
da molte attività private e la presenza della banca d’affari, soprattutto
sull’equity (non sul debito, dove il rapporto con il Tesoro resta
eccellente), segna un po’ il passo. Idem per Goldman, dove l’italiano numero
uno, Paolo Zannoni, è partner. Ma dalla banca Usa se ne sono andati sia
Costamagna, sia Draghi, sia Massimo Tononi, ora sottosegretario al Tesoro.
L’impressione è che Goldman abbia già dato molto. Anche Morgan Stanley ha
perso un po’ di smalto, ma l’arrivo tra i vice president di Domenico
Siniscalco ha aiutato la squadra guidata dall’ex Merrill Lynch Dante Roscini
a tornare alla ribalta. Ultimo colpo, il ruolo di advisor per la quotazione
del Sole 24 Ore.
L’Ipo dell’anno sarà fatta da Ubs e Mediobanca. La
prima, nel cui board italiano siede il presidente delle Fs (ed ex Sole)
Innocenzo Cipolletta, grazie a Diego Pignatelli e a un altro ex Merrill,
Piero Novelli, è oggi tra le più in vista. Ubs, dove è appena approdato
Pierpaolo Di Stefano lavora sul maggiore deal industriale del momento:
l’operazione Enel-Endesa. Anche in questo caso con Mediobanca: il team
guidato da Nagel (con Maurizio Cereda al vertice del corporate finance), è
sempre rimasto protagonista. «Restano i migliori anche con il passare degli
anni», dice l’ad di una società del Mib30.
L’operazione-tempo non è riuscita a Lazard. Il divorzio
da Braggiotti a Borghesi si è tradotto, per la boutique finanziaria guidata
ora da Giancarlo Scotti, in un deficit di visibilità. Mentre sorti diverse
hanno avuto i due ex partner: dalla Banca Leonardo di Braggiotti passano, al
pari di Mediobanca e Intesa, tutti i maggiori dossier. Mentre Borghesi ha
forse pagato l’appoggio al fronte Fiorani-Ricucci di due anni fa, e con la
sua Borghesi Colombo & associati sta riprendendo lentamente quota. La
banca estera che più delle altre ha saputo confermarsi è invece Merrill
Lynch. La banca Usa ha un italiano a Londra, Andrea Orcel (il single più
ricercato della finanza), uno a Roma, Andrea Pellegrini (il cui peso è
aumentato con la nomina a chairman del pubblic sector in Europa e con la
fuoriuscita dei discussi fratelli Pavesi) e uno a Milano, Maurizio Tamagnini,
che hanno saputo conquistare la fiducia del Tesoro. Merrill è entrata nel
capitale di F2i, il fondo per le infrastrutture della Cdp, e si è aggiudicata
il dossier più delicato del momento: la vendita di Alitalia. Oltre che gran
parte delle Ipo in Italia.
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di Redazione - giovedì 14 giugno 2007, 07:00
da Milano - Le Fondazioni azioniste di Intesa Sanpaolo
non hanno ancora deciso la costituzione di un patto di consultazione dopo la fusione
tra le due banche. «Ci sono colloqui per un patto di consultazione che non è
detto ci sarà», ha detto Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione
Cariplo e dell’Acri, al termine di una audizione al Senato per l’indagine
conoscitiva sull’evoluzione sul sistema creditizio nazionale promossa dalla
commissione Finanze guidata da Giorgio Benvenuto. Guzzetti ha quindi
ricordato che non ci sarà un patto di sindacato e, quindi, non sono previsti
vincoli per gli azionisti nel voto in assemblea: «Diversa - ha aggiunto - è
la situazione per quanto riguarda il patto di prelazione, che può dare
stabilità e su cui crediamo si possa trovare una soluzione». In ogni caso,
Guzzetti è convinto che la riorganizzazione del sistema bancario italiano con
la nascita di due megagruppi non crea «un rischio di duopolio» che possa
penalizzare l’accesso al credito. E ha spiegato al Senato come dal punto di
vista dell’Acri «questo rischio non ci sia», anzi, le operazioni in via di
realizzazione «sono in grado di dare una risposta positiva alla domanda di
credito nel Paese». Guzzetti ha aggiunto che le Fondazioni di origine
bancaria non hanno mai operato ingerenze nelle scelte gestionali delle banche
conferitarie, ma anzi «hanno supportato il management nella realizzazione di
disegni strategici ad alta rilevanza industriale, miranti a rafforzare le
performance operative degli istituti e a creare valore per gli azionisti».
Infine, gli enti di origine bancaria hanno «contribuito a mantenere forti e
indipendenti gli istituti bancari territoriali», ha concluso Guzzetti.
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di Redazione - giovedì 14 giugno 2007, 07:00
da Lodi - Una lettera aperta indirizzata a tutti i dipendenti
di Bpi: torna a scrivere l’ex ad Gianpiero Fiorani, stavolta sfogando la sua
amarezza. Dai cassieri ai direttori di filiale dice: «Mi immagino gli
attacchi, le offese, le battute di bassa lega, le minacce di clienti più o
meno spregiudicati che in quell’epoca dovevate subire, impotenti dinanzi a un
bombardamento mediatico senza precedenti, intriso di storie e di fatti che
poi si sono rivelati del tutto infondati ma che allora servivano ed erano
funzionali a un unico obiettivo: destituire e i suoi accoliti». Poi un
accenno a quelli che definisce «grandi uomini» della banca del passato,
Angelo Mazza, ex direttore generale della Lodi. Mentre a tutti i dipendenti
dice: «Abbiate la forza di far valere la vostra competenza». E, nella
missiva, anche le attestazioni di stima ricevute in questo periodo: «Ho
ricevuto, ad oggi, 859 telefonate e sms, tutte di persone del Lodigiano che
mi attestavano solidarietà e appoggio ma anche il rammarico per il fatto di
non potersi esporre». Poi un rimorso: «Quello più tormentato è di aver
involontariamente accelerato la malattia e, forse, la scomparsa di un uomo
come Rosario Mondani». Suo ex segretario particolare il cui archivio è al
vaglio della magistratura.
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di Redazione - giovedì 14 giugno 2007, 07:00
da Milano - Vanno riviste le norme previste dalla legge
di riforma del risparmio sull’assetto proprietario di Bankitalia, di cui è
prevista la pubblicizzazione. Antonio Patuelli, vicepresidente dell’Acri, nel
corso della audizione in Senato nell’ambito dell’indagine conoscitiva
sull’evoluzione del sistema creditizio, entra nel merito della questione. La
Costituzione, osserva, «prevede un esproprio con equo indennizzo». E, dato
che «fu imposto alle casse di entrare in Bankitalia», se «il Parlamento
decide che i vecchi azionisti devono uscire, la Costituzione deve valere per
tutti». Quanto alle risorse necessarie, «l’obiettività del conteggio può non
gravare sul bilancio dello Stato perché Bankitalia è talmente solida che può
liquidare i soci con equo indennizzo senza squilibrare il bilancio dello
Stato», conclude Patuelli. Anche il presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti,
esprime «preoccupazione» per la «sostanziale nazionalizzazione» di Via
Nazionale: «È auspicabile che tale scelta legislativa venga rimeditata» non
solo per salvaguardare l’autonomia e l’indipendenza della banca centrale, ma
anche per evitare rischi di «depauperamento patrimoniale delle banche
partecipate dalle Fondazioni».
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di Angelo Allegri - giovedì 14 giugno 2007, 07:00
da Milano - Morgan Stanley, Deutsche Bank, Ubs e Citigroup:
saranno le prime banche a rispondere in sede penale del crac Parmalat. Il
giudice dell’udienza preliminare di Milano Cesare Tacconi le ha rinviate a
giudizio ieri. Nel mese di luglio lo stesso Tacconi dovrà decidere la sorte
di un’altro istituto, Bank of America che potrebbe aggiungersi al gruppo. A
chiedere il patteggiamento, invece, è stata Nextra (gruppo Intesa Sanpaolo)
che ha già raggiunto l’accordo con la nuova Parmalat di Enrico Bondi per un
risarcimento da 150 milioni e che offre un’ulteriore compensazione ai
risparmiatori. La decisione su quest’ultimo caso è prevista per i prossimi
giorni, mentre la prima udienza del dibattimento contro i quattro istituti
rinviati a giudizio è in calendario il 22 gennaio.
L’accusa è sempre la stessa: aggiotaggio. In pratica,
sostiene la procura, le banche in questione, che hanno accompagnato il gruppo
di Calisto Tanzi in alcune spericolate operazioni, conoscevano lo stato di
dissesto, ma hanno taciuto, manipolando i corsi borsistici. Il provvedimento
(che stabilisce anche il rinvio a giudizio di 12 funzionari degli istituti di
credito coinvolti) è una delle prime applicazioni concrete della legge 231,
che prevede la responsabilità oggettiva di enti e società per non aver
predisposto modelli organizzativi interni in grado di prevenire la
commissione di reati. È questo il solo caso in cui una persona giuridica può
venire chiamata a rispondere direttamente di fronte al giudice penale. Negli
altri (compresi, almeno per il momento, i rimanenti filoni processuali del dissesto
Parmalat) le banche figurano in giudizio come soggetti chiamati civilmente a
risarcire il danno provocato da propri funzionari. Anche per questo le
reazioni del pm Francesco Greco sono state caute: «Quella del gup Tacconi è
una decisione molto positiva per i risparmiatori», ha detto. «Ma sarà un
processo molto difficile. È la prima volta che si aprirà un procedimento alle
banche accusate di aver manipolato il mercato».
Quanto agli istituti sotto accusa respingono gli
addebiti senza eccezioni. Il primo muro di difesa è di carattere formale:
alcuni tra gli avvocati difensori contestano la stessa applicazione della
legge 231: «Le banche estere non hanno sede in Italia, il Gup non ne ha
tenuto conto, ne riparleremo al processo», ha detto Giuseppe Bana avvocato di
Ubs. Il secondo argomento è più sostanziale: le banche smentiscono di aver
avuto conoscenza delle malridotte finanze del gruppo di Collecchio.
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di Redazione - giovedì 14 giugno 2007, 07:00
da Milano - I commissari della Cirio chiedono a Sergio
Cragnotti, ad altri 15 amministratori e sindaci e alla Deloitte & Touche
risarcimenti per 329,5 milioni. La somma è richiesta in via principale al
revisore; a Cragnotti 26,6 milioni. Tra i danni ricordati nell’atto di 89
pagine, citato da Radiocor, quelli provocati dalle parcelle dei consulenti
per oltre 2,1 milioni e quelli, per 11,2 milioni, collegati ai versamenti per
la famiglia Cragnotti. Oltre a Cragnotti e alla Deloitte a cui era stato
affidato l’incarico di revisore dal 1998 al 2002, sono chiamati al
risarcimento dei danni i figli dell’ex patron, Massimo e Andrea, il genero
Filippo Fucile e altri ex amministratori in carica nel 2003 (come Giovanni
Fontana e Roberto Colavolpe), e sindaci. «Quella avviata davanti al Tribunale
civile di Roma - ha spiegato a Radiocor il commissario Luigi Farenga - è
un’azione di responsabilità. I tentativi di salvataggio del gruppo, come ad
esempio il piano Livolsi, hanno ritardato la dichiarazione di insolvenza
pregiudicando ulteriormente il passivo della Cirio». I 329,5 milioni
richiesti, ha detto ancora Farenga, «sono soldi che una volta realizzati,
andranno a beneficio di creditori ed obbligazionisti». In via principale è
chiamata a risarcire il danno la nuova Deloitte & Touche in solido con la
Dianthus, l’ex Deloitte che ormai è solo una scatola vuota. La richiesta di
risarcimento è legata «alla sostanziale omissione dell’attività di revisione
eseguita da Dianthus che ha consentito agli amministratori in carica dal ’98
al 2002 di porre in essere le operazioni di spoliazione e mala gestio». Tra i
danni ci sono anche quelli provocati dalle parcelle d’oro destinate in pieno
default alle società di consulenza per «improbabili piani di salvataggio». Ad
esempio Credit Suisse First Boston per «la consulenza in merito alla
congruità del piano di ristrutturazione predisposto da Livolsi» si è
insinuata al passivo del gruppo come creditore per 1.024.688 milioni, mentre
il professor Luigi Guatri, per un incarico di febbraio 2003 ha ricevuto
550.800 euro.
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[FIRMA]PAOLO BARONI
ROMA - La pressione fiscale in Italia viaggia attorno al
42% del prodotto interno lordo. Ma questa è solo una media: perché in realtà,
per colpa degli evasori, gli italiani onesti pagano molto di più. Secondo i
calcoli dell’Agenzia delle entrate sui dati del 2004, a fronte di un prelievo
«apparente» del 41,42% i cittadini onesti hanno pagato quasi 10 punti
percentuali in più: il 50,74%. La ricchezza sottratta al Fisco negli ultimi
27 annim, dal 1980 ad oggi, è cresciuta infatti in maniera esponenziale,
passando da 43,9 miliardi di euro ai 270,1 miliardi di euro del 2004. Che
corrisponde ad una quota pari al 19,12% del Prodotto interno lordo.
La ricerca rivela che è addirittura dal 1989 che la
pressione reale viaggia sopra il 50%, con un picco del 55% nell’anno
dell’Eurotassa, il 1997. Le stime del 2004, l’ultimo anno per il quale sono
disponibili tutte le variabili, parlano di una base imponibile effettiva di
818.403 miliardi e di tasse pagate solamente su 548.301 miliardi di euro.
L’anno di massimo assoluto dell’evasione è stato il
1990: negli anni a seguire questo odiosissimo fenomeno comincia il suo
graduale rientro fino ad arrivare al minimo del 1999 con un decremento di
quasi 10 punti in 10 anni. Negli anni più recenti «si osserva, invece, una
pericolosa fase ascendente dell’evasione negli anni 2003 e 2004».
La ricerca, appena sfornata, conferma la volontà del
Fisco di conoscere la reale portata del «fenomeno evasione» proprio in un momento
in cui l’argomento è diventato di strettissima attualità, in vista della
spartizione del cosiddetto «tesoretto» e della messa a punto del nuovo Dpef
(Documento di programmazione economica). Nei giorni scorsi è stato lo stesso
ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, ad affermare che in Italia il
peso delle tasse è altissimo e che la riduzione delle aliquote è strettamente
legata al recupero d’evasione fiscale.
Le nuove stime partono dai versamenti Iva che vengono
incrociati con i dati Istat relativi alla contabilità nazionale. L’imposta
sul valore aggiunto, infatti, secondo gli esperti, «è un tributo cardine del
comportamento fiscale tout-court perché la gran parte delle fattispecie di
comportamento evasivo generano un abbattimento di imponibile Iva». Che negli
ultimi anni è stato pesantissimo: solo nel 2004 sarebbero stati sottratti al
Fisco 43,2 miliardi di euro di Iva, ben il 31% in più rispetto a 5 anni
prima, a fronte di versamenti per 77,9 miliardi di euro. In pratica ogni 100
euro di Iva pagata ce ne sono 55 che vengono puntualmente evasi.
La vera novità dell’analisi condotta dall’Agenzia delle
entrate riguarda però la possibilità di calcolare la pressione fiscale
effettiva, un dato che consente di verificare se la riduzione della pressione
sia imputabile a una riduzione del carico fiscale determinato dalle leggi o
se sia il risultato di un aumento dell’evasione. Nel 2002, ad esempio, si è
assistito a una riduzione del carico fiscale legale, non colto tramite la
pressione fiscale apparente rimasta stazionaria, poiché associato a un
recupero di evasione (si riduce il carico fiscale di chi paga le tasse,
perché si amplia la base di quelli che le pagano). Nel 2003, è invece
accaduto l’inverso: e il carico fiscale sugli «onesti» è aumentato di più di
quello apparente. Nel 2004, la pressione fiscale apparente è invece scesa di
più di quella reale: questo significa che una parte della riduzione del peso
fiscale era il prodotto di una nuova impennata dell’evasione. La pressione
fiscale è cresciuta fino al 1997 per poi calare leggermente e stabilizzarsi:
intorno al 42-43% quella apparente, mentre quella effettiva oscilla sul
51-52%. E questo, come segnalano da tempo molti osservatori, dalla
Confindustria alla Banca d’Italia, è la vera anomalia italiana.
«A causa del peso dell’evasione – denunciava il
governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nelle sue ultime
Considerazioni finali, lo scorso 31 maggio - la differenza tra l’Italia e
resto dei paesi d’Europa è maggiore se si guarda la prelievo sui contribuenti
fiscalmente onesti». La forbice tra pressione fiscale «apparente» e «reale»
viaggia infatti attorno ai 9-10 punti percentuali del Prodotto interno lordo:
ecco l’importo del vero «tesoretto» che bisognerebbe cercare di incassare.
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[FIRMA]ANTONELLA RAMPINO
ROMA - Spira uno straordinario buonumore da Palazzo
Chigi, nonostante le molte grane, e proprio sulla grana più grossa: la
politica economica, la riforma delle pensioni, il Dpef che va preparato in
volata. «Abbiamo gettato le fondamenta del risanamento, adesso è il momento
di costruire la casa», fanno sapere gli uomini del Professore. «L’accordo in
linea di massima c’è», suonano le campane di Giulio Santagata. In realtà,
l’incontro di Padoa Schioppa, Damiano, Visco e Santagata nello studio di
Prodi è stato interlocutorio. Scontati alcuni punti, già messi a fuoco in una
girandola di analoghi vertici fortunosamente sfuggiti ai cronisti (uno fu lo
stesso giorno della visita di Bush a Roma), e cioè che ad essere interessati
dalla fase di redistribuzioni saranno le pensioni basse e i giovani, che ci
sarà un piano-casa forse anche col ritocco dell’Ici cui tanto tiene Rutelli e
che non è inviso a Rifondazione «purché ne siano esclusi quelli alla
Berlusconi», tira aria di rinvio a settembre dello scalone. E il
superministro dell’Economia è sempre più scettico, poiché girano voci
(soprattutto a sinistra) che il «tesoretto» sia ben oltre i 10 miliardi di
euro di cui si vagheggiava sin qui, e perché si sarebbe aggiunto un
«tesorone» anche nell’Inps, che è in realtà un effetto contabile, cioè poco
più che virtuale. Anche se Russo Spena, per esempio, non ci crede, «quei
soldi ci sono, sono l’effetto di 250mila immigrati che si pagano la
previdenza, mentre ne avevano previsti solo 50 mila».
Di certo, quello di Palazzo Chigi è un ottimismo
necessitato. Senza tener conto delle richieste delle sinistre, ieri piuttosto
compiaciute di aver trovato unità di azione in materia di politica economica
e sociale, il governo rischia di andare a carte e quarantotto: in Senato,
dove pure ieri è arrivato Marco Follini come ottantanovesimo senatore
dell’Ulivo, non mancherebbero uno o due voti, ma svariate decine. Quindi il
governo procede a tappe forzate. Domani ci sarà l’incontro coi capigruppo di
maggioranza dei due rami del Parlamento, «passaggio indispensabile per capire
le loro richieste, e per spiegare quante risorse ci sono e come modularle»,
spiega uno degli uomini-chiave di Palazzo Chigi. Poi, venerdì l’incontro
fondamentale: quello con i sindacati. La cui linea è considerata dalla
sinistra come quella del Piave, anche se in questa fase Rifondazione si sente
particolarmente vicina al governo, tanto che fonti sindacali raccontano di un
filo diretto Prodi-Giordano, che avrebbe prodotto una linea di mediazione.
Un’ipotesi sulle pensioni, rimandare al 2010 l’innalzamento dell’età
pensionabile a 58-59 anni. Sarebbe una soluzione ad hoc per i lavoratori
“usurati”. E c’è anche una certa sintonia della sinistra con il ministro
Cesare Damiano, del quale si apprezza la volontà di «abbattere il
precariato». Tra tante differenze, si dovrà trovare la quadratura del
cerchio. Di certo, l’attenzione di Prodi è concentrata a sinistra, ma
altrettanto certamente non scontentando l’ala riformista dell’Unione. E
nessuno a cominciare da Prodi, fanno sapere da Palazzo Chigi, pensa di disattendere
i moniti del commissario Almunia. Quanto agli esiti, è presto anche solo per
ipotizzarli. Come fanno notare da via XX Settembre «la partita delle pensioni
non si può certo concludere in un giorno». Tommaso Padoa Schioppa ha
elaborato una linea detta «a pacchetto», ovvero riforma delle pensioni e
welfare devono procedere di pari passo. Poi, naturalmente, far capire che la
coperta è corta. E pensare che il ministro della Solidarietà Parolo Ferrero
vorrebbe impegnare un miliardo di euro solo per gli sfrattati...
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TERESA PITTELLI
ROMA - Due miliardi e mezzo di euro a pensionati poveri,
disoccupati e lavoratori discontinui. I tecnici dei ministeri economici hanno
ormai quasi definito l'accordo
sulla parte dell'extra-gettito
fiscale da assegnare al welfare. Il progetto prevede di destinare aumenti di
70-80 euro a 1,4 milioni di pensionati che hanno già versato i contributi ma
vivono con meno di 550 euro al mese, e di portare l'indennità
di disoccupazione dal 50% al 60% dell'ultima
retribuzione, che verrebbe inoltre estesa ai cosiddetti lavoratori atipici,
attualmente privi di una copertura. Al piano andranno quasi sicuramente 2,5
dei 10 miliardi extra emersi dalle dichiarazioni fiscali 2006, ma la somma
potrebbe anche lievitare in modo consistente, forse fino a 3 miliardi di
euro, dopo la prossima rilevazione di luglio.
Dopo il vertice di ieri a colazione guidato da Romano
Prodi, se il piano sulle pensioni basse e la riforma degli ammortizzatori
sociali sta raccogliendo un consenso trasversale, molte sono le questioni
irrisolte che restano sul tavolo. A partire dalla spinosa discussione sulla
revisione dello scalone Maroni, che lasciato così com'è
innalzerebbe da 57 a 60 anni l'età
di pensionamento dal 2008, e sui coefficienti di trasformazione, che
calcolano l'importo finale della
pensione in base all'allungamento
della vita media. Problemi talmente controversi, a causa dei veti incrociati
dei sindacati e della sinistra radicale, da non escludere l'ipotesi circolata da ultimo a palazzo Chigi di
rimandarne la discussione all'autunno,
quando comincerà a delinearsi la Finanziaria.
Una soluzione che lascia scettici i sindacati. «Sarebbe
una sciocchezza e un modo per tenersi lo scalone», sostiene Pierpaolo
Baretta, segretario generale aggiunto della Cisl. E anche nel governo c'è chi, come il ministro Damiano, spera di
chiudere il negoziato con i sindacati entro giugno, con un accordo che tenga
insieme tutte le misure sul welfare e il mercato del lavoro, scalone e
coefficienti compresi. Le ipotesi di trattativa alle quali i tecnici stanno
lavorando prevedono di sostituire lo scalone con scalini graduali o con le
quote suggerite dalla Cisl, ovvero somme di età anagrafica e anzianità
contributiva da combinare liberamente perché diano lo stesso risultato (ad
esempio «quota 95», raggiungibile con 60 anni di età e 35 di contributi, o 59
di età e 36 di contributi, e così via).
Una soluzione che piace ovviamente a Baretta, anche se
rimangono da convincere Cgil e Uil. «Secondo noi la strada maestra è il
ritorno a 57 anni per l'età della
pensione, lavorando sugli incentivi per il suo innalzamento progressivo»,
ribadisce Domenico Proietti (Uil).
Quanto ai coefficienti previsti dalla legge Dini, sta
prendendo corpo l'ipotesi di
congelare temporaneamente la loro revisione, e demandare a una commissione ad
hoc la ridefinizione dei parametri di calcolo sulla base di nuove variabili
(come il tasso di immigrazione, la crescita, la precarizzazione del mercato
del lavoro).
Ancora da sciogliere è anche il nodo della
quantificazione dell'extra-gettito
da destinare agli altri capitoli sociali del Dpef come il piano casa e gli
aiuti alle famiglie, per i quali sarebbero sul piatto circa 2-2,5 miliardi
oltre ai 2,5 già previsti per il welfare. Una fetta del «tesoro» potrebbe
anche finire in un decreto di fine giugno con la rivalutazione delle pensioni
e gli ammortizzatori sociali. E un'altra parte attendere la Finanziaria per
la sua definizione. Sempre che tra oggi e domani governo e maggioranza
riescano a trovare l'intesa politica.
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[FIRMA]SUSANNA MARZOLLA
MILANO «E’ la prima volta che si farà un processo alle
banche accusate di aver manipolato il mercato». Il pm Francesco Greco
commenta così, con soddisfazione, la decisione del gup milanese Cesare
Tacconi di rinviare a giudizio quattro istituti di credito di livello
mondiale: Citigroup, Deutsche Bank, Morgan Stanley, Ubs (Unione delle banche
svizzere). Il reato contestato è aggiotaggio: le banche, chiamate a
rispondere come «persone giuridiche» in base alla legge 231, sono accusate di
aver fornito «notizie false, esagerate o tendenziose» sulla situazione di
Parmalat e sulla solidità dei suoi titoli; notizie che hanno «turbato il
mercato».
Il processo comincerà il prossimo gennaio e che «sarà
molto difficile», come preconizza lo stesso Greco. Ma intanto il primo passo
è stato fatto: «La procura di Milano - sottolinea il pm - ha dimostrato di
voler continuare ad accertare tutte le responsabilità emerse nel crac
Parmalat e continuerà ad indagare; è la migliore risposta a quanti hanno
sostenuto un nostro presunto disimpegno dal processo». La decisione del gup,
secondo Greco, «è positiva anche per i risparmiatori» che possono così
sperare in un risarcimento; anche se «sarebbe auspicabile trovare una
soluzione extragiudiziale». Perché un gran numero di parti civili
allungherebbe i tempi del giudizio, favorendo la possibile prescrizione del
reato. Non è questa però, al momento, la via d’uscita che auspicano le banche
coinvolte. Tutte convinte di uscire indenni - nel merito e non nei tempi -
dal prossimo processo. Ubs, ad esempio, critica la decisione del gup su due
punti: l’aver applicato la legge 231 «anche alle banche straniere che non
hanno sede in Italia»; il non aver tenuto nel debito conto che Parmalat «era
valutata da agenzie di rating indipendenti come finanziariamente solida, e
questa previsione era confermata dalle società di revizione». Sul primo punto
il gup Tacconi risponde che si tratta di una questione infondata perché «nel
momento in cui l’ente estero decide di operare in Italia ha l’onere di
attivarsi e di uniformarsi alle normative. Ragionando diversamente si
attribuirebbe una sorta di autoesenzione in contrasto con il principio di
territorialità della legge». Sul secondo punto, invece, si giocherà tutto il
processo. Stando a quanto, nei loro comunicati, fanno sapere, oltre ad Ubs,
tutte le banche coinvolte. Morgan Stanley dice di aver «condotto un riesame
approfondito delle proprie operazioni, che sono risultate del tutto corrette;
ciascuna di queste transazioni è stata avviata e portata a termine non
essendo a conoscenza dell’insolvenza di Parmalat». Il legale di Deutsche Bank
si dice convinto che al processo si dimostrerà come nessun dipendente «abbia
commesso alcuna condotta di aggiotaggio» e Citigroup va più in là: «Nella più
grave bancarotta fraudolenta della storia italiana del dopoguerra siamo stati
parte offesa». Dopo il rinvio a giudzio di oggi, all’elenco delle banche
coinvolte nell’accusa di aggiotaggio mancano due istituti: Bank of America,
su cui il Gup deciderà a luglio; Nextra, società di Banca Intesa, che invece,
dopo aver risarcito Parmalat con 150 milioni di euro ha chiesto il
patteggiamento (udienza il 18 giugno).
-Thomas Edison-
Il tempo è l'unico, vero capitale che un essere umano
ha,
e l'unico che non può permettersi di perdere.
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