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per il bestiame e da una decina d’anni si chiama soia.
Bisogna alimentare milione di cinesi che mangiano so-
ia e alla fine sarà il mercato (transgenico) della soia ad
uccidere il territorio amazzonico.
Oggi l’Amazzonia ha soprattutto bisogno di militanti,
di persone che la amino e combattano per lei. L’Amaz-
zonia non rappresenta soltanto una preoccupazione.
Rappresenta anche una verità molto grande, la cer-
tezza che siamo arrivati tardi a capire che quell’enor-
me territorio, fra i più fragili della terra, potrebbe spa-
rire per sempre.
Il modo migliore per conservare quella che resta del-
l’Amazzonia è dichiararla “Parco nazionale dell’uma-
nità”, trasformarla in bene collettivo. In modo che
nessuno vada più a farci del turismo, salvo all’interno
degli spazi previsti. Sicuramente l’Amazzonia non è
un paradiso per il turismo, forse lo è per i viaggiatori,
dato ideologico in quel modo di essere, è un imperativo
naturale. La loro vita ha bisogno di una specifica ar-
monia con l’ambiente. Ma cosa accade oggi? Il contatto
con la natura del consumo è sempre più forte, l’incon-
tro con l’uomo occidentale o occidentalizzato diventa
inesorabile, traumatico, inarrestabile. Il grande sforzo
è lavorare per rendere questo inesorabile incontro me-
no traumatico possibile per garantire il rispetto delle
loro culture. Nessuno conosce la foresta meglio degli
indios che ci abitano e che ogni giorno vedono sparire
un pezzo di quel mondo verde di cui sono l’anima. Ep-
pure nessuno li ha mai presi in considerazione.
L’Amazzonia è sempre stata in pericolo, alcuni si sono
preoccupati per la foresta, ma pochi per la gente che ci
vive. Da questo punto di vista, l’Amazzonia è un tut-
t’uno: foresta, acqua, etnie. Ieri il pericolo si chiamava
caucciù, si chiamava oro; oggi si chiama legno, terra